NEW YORK – Per anni, ricordando l’Undici Settembre, abbiamo pensato alle vittime, agli eroi che tentarono di salvarli, agli assassini che avevano pilotato gli aerei,...
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“American Dunkirk”, l'affascinante e impegnativo studio dei due ricercatori, ricostruisce dopo 15 anni quella massiccia evacuazione via acqua. Avvenne spontaneamente, non appena la Guardia Costiera lanciò un unico e straziante messaggio: «Catastrofe al World Trade Center, ogni imbarcazione disponibile è chiamata in soccorso». Niente altro: senza ordini, senza piani di navigazione, senza una organizzazione, scattò una “reazione creativa e pragmatica” da parte della comunità marittima, che seppe muoversi senza una guida dall’alto, che non ebbe timore di tuffarsi verso il centro della catastrofe invece che scapparne.
Le barche erano di ogni tipo: c’erano i traghetti che fanno normalmente servizio fra Manhattan e Staten Island e Manhattan e il New Jersey. C’erano i rimorchiatori che guidano le navi e le chiatte dentro la Baia, le imbarcazioni degli operatori turistici che organizzano minicrociere intorno a Manhattan, c’erano i motoscafi di centinaia di comuni cittadini, e perfino una storica barca a vela, di proprietà del capitano Patrick Harris, che per l’appunto era attraccato al porticciolo sotto le Torri Gemelle. Harris si mise subito in moto, e ricorda che era immerso nel fumo, e non vedeva a dieci metri. Navigava lentamente, quando il vento cambiò direzione e di colpo ebbe la vista chiara: «Vidi sei rimorchiatori che stavano avanzando verso Manhattan, stava cominciando la mobilitazione».
Il capitano Rich Naruszewicz, che pilotava il traghetto sull’East River fra Brooklyn e l’attracco della 34esima strada, si diresse subito verso sud, e vede i primi scampati: «Sembravano in trance, uscivano da una nuvola di polvere bianca e grigia, erano smarriti, confusi». Alan Michael, capitano di una imbarcazione turistica, ha raccontato «Non avevamo ordini di nessuno, ci arrangiavamo fra di noi, comunicavamo con i megafoni». Così le barche furono attraccate dove capitava, non solo ai moli, ma talvolta ai pali della luce, agli alberi: giusto quei pochi minuti per lanciare la passerella, far salire i “naufraghi” e ripartire.
Presto nel caos si trovò un ordine: i capitani di ogni singola nave tenevano un cartello con su scritto la loro destinazione, o la gridavano nel megafono: Hoboken o Jersey City nel New Jersey, o Bay Street a Staten Island. La gente si metteva in fila e ordinatamente saliva a bordo. Dall’altra parte dell’Hudson e della Baia intanto anche gli autisti di autobus e tassi si erano mobilitati, insieme a migliaia di altri volontari. Ai luoghi dell’attracco c’erano persone con catini d’acqua, spugne, magliette pulite. Tanti poterono lavarsi di dosso la polvere, indossare un capo pulito, e poi ottenere un passaggio a bordo di automobili o autobus che li portavano a casa.
Una volta scaricati i naufraghi, le imbarcazioni caricavano invece vigili del fuoco, volontari, infermieri, medicinali, tutto quel che serviva ai soccorritori che stavano lavorando alle rovine delle Torri. «Non ci fu nessun piano – scrivono i due ricercatori – ma l’immediata comprensione di cosa si poteva fare». La catastrofe fu di fatto frantumata in tanti piccoli “bocconi”, masse di volontari aiutarono in mille piccole iniziative, e le autorità non pretesero di dettare legge. La flotta improvvisata contò fra le 900 e le mille imbarcazioni. Negli anni che seguirono, furono date 900 medaglie al valor civile ai piloti che sfidarono il caos, il fumo acre, la paura di nuovi attacchi. E non ci fu neanche un singolo incidente, un taglio, una gamba rotta, uno scontro. Tutti filò liscio. Nell’immane disastro, il sangue freddo e la solidarietà della comunità marittima fu davvero eroica: «E’ la legge del mare – ha spiegato un capitano di un traghetto -. Se qualcuno è in difficoltà, vai ad aiutare».
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Il Messaggero