A notte fonda - appena mezza Italia ha sentito tremare il letto sotto la schiena, quando c’erano solo paura e confusione - i social si sono accesi all’istante. Prima...
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Per una volta davvero secche, essenziali, le frasi degli status di Facebook erano semplici domande o esclamazioni. «Avete sentito anche voi?», «Trema tutto!». Ho aggiornato io stesso quattro, cinque, sei, sette volte di seguito la schermata iniziale per sapere, per capire qualcosa di più. E mentre i siti di informazione avevano solo un generico lancio, un coro di voci - conosciute, sconosciute, vicinissime, più remote - definiva già una situazione drammatica. Prima del «safety check» ufficiale - il controllo di sicurezza che Facebook ha attivato in occasione di calamità naturali e attentati terroristici - ne era già partito un altro di impulso, spontaneamente, bocca a bocca.
Quasi solo in situazioni simili, di panico, di emergenza, si illumina l’altra faccia dei social. La loro funzione di «rete», di collante fra prossimi, lampeggia sotto la scorza opaca della chiacchiera, fra i rifiuti della fogna (così l’ultimo numero di “Time” a proposito della supremazia del peggio in Rete). È strano, è come vedere il “rovescio” di una stoffa che pensavi di indossare al dritto. E benché sempre e comunque si rincorrano - come in una eterna pagina di peste manzoniana - le voci false, le frasi orrende, denigratorie, le accuse inutili del primo minuto, c’è uno spazio solidale che si costruisce dal niente: un contagio positivo. L’attrito polemico, l’isteria, l’ignoranza esibita con disinvoltura, tutto lascia spazio a una improvvisa, anche se spesso disarmata, voglia di esserci, di fare. Non è solo retorica, non è solo la preghiera o il lutto a parole. È anche il gesto di chi installa cartelli virtuali nel caos, solidi, precisi: informazioni corrette per le donazioni di sangue, indicazioni precise per la raccolta di beni di prima necessità; il gesto di chi si premura di correggere inesattezze anziché alimentarle (un Iban che non torna, una voce infondata); il gesto di chi mette a disposizione qualcosa, su due piedi, quello che può. Un’informazione, un dono, una possibilità.
È spiazzante, e anche un po’ penoso, che il lato “umano” della Rete si riveli sempre più a fatica, sempre più di rado. Le tribù più arroccate, i clan più aggressivi ieri hanno lasciato il campo - ma per quanto? - a una «social catena» che si rinsaldava anche da molto lontano. E davanti al dolore, al dolore degli altri, finalmente ha ridato un senso, un peso alla parola più abusata e più logora dei social: «Condividi». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero