Il cambiamento fa paura. Questa la morale della storia. Questo il sottotesto della pagina nera firmata dal Tar e compresa in quella che è una sorta di enciclopedia della...
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Il nocciolo della questione comunque resta. E sta nel fatto che senza una razionalizzazione del sistema tutto diventa impossibile in Italia. Il tweet di Matteo Renzi, a cui fanno seguito le prese di posizione anti-Tar di tutto lo stato maggiore democrat, dal capogruppo Rosato al responsabile giustizia Ermini e agli altri anche nel governo, infatti è sferzante: «Abbiamo fatto bene a cambiare i musei, abbiamo fatto male a non cambiare i Tar». Se nella riforma costituzionale fosse stata inserita questa abrogazione, però non è che l'esito di quel voto sarebbe stato diverso. Tutt'altro. Perché l'Italia che ha scelto allora il No è un po' l'Italia che prospera e si nasconde, nella sua religione dell'immobilismo, dietro tutti quei tribunali e quegli organi che garantiscono la stasi. E questo tipo d'Italia, che ha vinto il 4 dicembre, si è sentita ringalluzzita da allora.
LA MAZZATA
Chi per primo, con più insistenza e più competenza ha chiesto provocatoriamente la fine dei Tar è stato Romano Prodi. A riprova che il riformismo è anzitutto decisione (condivisa) e sguardo in avanti. Alla luce del nuovo episodio, il Professore, che già nei suoi articoli sul Messaggero ha combattuto questa battaglia, incalza: «C'è un Paese in disfacimento. Che non si rende conto delle conseguenze delle sentenze che vengono fatte, delle parole che vengono dette, delle azioni irresponsabili che vengono compiute. Di ciò stiamo parlando quando parliamo di questa decisione del Tar o di altre simili. Non si pensa all'impatto distruttivo che possono avere sul Paese».
Appena c'è una dose di innovazione, come nella riforma Franceschini, arriva la mazzata del tribunale? «Magari fosse così: la mazzata arriva sempre e comunque è può arrivare da tante parti», s'infervora Prodi. E ancora: «Appena viene assegnato un appalto, partono subito i ricorsi. Ma come può andare avanti un Paese in queste condizioni?».
Un discorso che il ministro della giustizia, Andrea Orlando, non può che condividere. Va all'attacco il Guardasigilli: «Purtroppo non abbiamo messo le mani nella giustizia amministrativa. Lo volevamo fare, non lo abbiamo fatto. Ma la questione resta: i Tar, senza demonizzarli, andrebbero cambiati». Un altro riformista, il politologo ed economista Michele Salvati, collega «la sconcertante negazione della legge Franceschini» a un clima generale: «Siamo in una fase di controriformismo spinto che viene applicato quasi indiscriminatamente: sulle leggi sul lavoro, sulle liberalizzazioni e via dicendo. C'è una sorta di indietro tutta». Proprio questo era il titolo di una delle trasmissioni più geniali di Renzo Arbore, parodia sull'Italia incapace di guardare avanti. Che poi è quella classica del particulare, perché dietro ogni vincolo, ogni freno, ogni veto, ogni riforma smontata e archiviata c'è l'interesse a difendere fette di potere, a tutelare posizioni, a garantire privilegi di gruppi e di corporazioni.
I RIGHISTI
Il dipendente dei Beni Culturali, cioè un interno del ministero, che ha firmato alcuni dei ricorsi contro i direttori esterni voluti da Franceschini è infatti uno dei classici righisti: così con spirito amaro, in uno dei suoi libri, Stefano Benni chiama coloro e sono forse la maggioranza che tracciano una riga attorno a se. E guai a chi valica quella linea perché l'invasore - un cervello che rientra dall'estero o un manager straniero che sceglie l'Italia, come in alcuni dei casi appena contestati - va respinto in ogni modo. Il Tar è una delle armi maneggiate da questa cultura dell'autotutela e del conservatorismo in panni pseudo-legalitari.
Ancora Prodi: «Sono convinto che snellire tutti i rami della pubblica amministrazione, a cominciare dai Tar, farebbe balzare all'insù il prodotto interno lordo. In un contesto in cui tutto è impugnabile, nessuno si prende più la responsabilità di fare le cose. Il nostro problema è questo, la paralisi decisionale. Non il costo del lavoro, che è superiore a quello cinese ma inferiore a quello tedesco e francese». La battaglia è dichiarata. L'esito, purtroppo, sarà incertissimo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero