La cassazione legalizza gli insulti alla suocera: «Dire vipera non è reato»

La cassazione legalizza gli insulti alla suocera: «Dire vipera non è reato»
Una sentenza che fa giurisprudenza, soprattuto dentro casa. Dopo le condanne di primo e secondo grado per ingiuria a carico di un genero siciliano - Michele D.A., 45 anni - che...

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Una sentenza che fa giurisprudenza, soprattuto dentro casa. Dopo le condanne di primo e secondo grado per ingiuria a carico di un genero siciliano - Michele D.A., 45 anni - che aveva definito «vipera» la suocera, ribadendo tre volte il 'concettò agli agenti intervenuti a sedare il clima di litigiosità familiare, ci ha pensato la Cassazione a scagionare le espressioni che si risolvono solo «in dichiarazioni di insofferenza» che non possono portare, così la pensano gli 'ermellinì, a processare chi le ha pronunciate.




Dunque, la Suprema Corte - con la sentenza 5227 - ha annullato senza rinvio la condanna inflitta nel 2012 dal Tribunale di Nicosia (Enna) a Michele, giudicato colpevole per aver spiegato ai poliziotti che la suocera Santina era «scesa» nel suo appartamento «come una vipera, come una vipera, come una vipera!» dopo averlo sentito litigare con la moglie.



Ad avviso del Tribunale, l'espressione era sen'altro offensiva e per questo, su denuncia della "vipera" Santina, il genero era stato condannato a una pena (la cui entità non è nota) e anche al risarcimento dei danni morali. In Cassazione, il difensore di Michele - l'avvocato Piergiacomo La Via - ha sostenuto la tesi della inoffensività della parola vipera, pronunciata dopo «un'aspra discussione, in un contesto litigioso ed ostile» e «comunque non indirizzata all'interessata, ma agli agenti intervenuti al fine di descrivere la scena». Per i supremi giudici, l'obiezione è «fondata». «Se è vero che il reato di ingiuria si perfeziona per il sol fatto che l'offesa al decoro o all'onore della persona avvenga alla sua presenza, è altrettanto vero - scrive l'alta Corte - che non integrano la condotta di ingiuria le espressioni che si risolvano in dichiarazioni di insofferenza rispetto all'azione del soggetto nei cui confronti sono dirette e sono prive di contenuto offensivo nei riguardi dell'altrui onore e decoro, persino se formulate con terminologia scomposta ed ineducata».



Da tali premesse - conclude il verdetto - «discende che la frase sopra riportata, pronunciata dopo un contrasto che aveva determinato l'intervento delle forze dell'ordine e per descrivere, nella concitazione del momento, le modalità dell'azione di Santina, non si connota in termini di offensività idonei a giustificare l'attivazione della tutela penale». Condanna cancellata: il fatto «non sussiste». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero