L'esercito siriano libero (Fsa), una delle forze di opposizione a Bashar al-Assad appoggiate dalla Turchia, ha riconquistato le città di Dabiq e Soran, controllate fino...
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I ribelli dell'Esercito libero siriano conquistando Dabiq non hanno solo strappato all' Isis una cittadina strategica ma hanno tolto ai jihadisti uno dei suoi luoghi-simbolo, una «roccaforte morale», cara, vitale al millenarismo dello Stato islamico perché sede della battaglia finale fra Dio, difeso da un grande esercito musulmano, e i suoi nemici: i «Romani», cioè i «crociati». Qualcosa di paragonabile all'Armageddon, sede della battaglia finale fra Bene e Male della tradizione giudaico-cristiana.
Era a Dabiq infatti che il Califfato avrebbe atteso i suoi nemici, è lì che fu sgozzato uno degli ostaggi occidentali, l'americano Peter Kassig: quasi un invito alla battaglia. La profezia si ritrova nell'Hadith (Racconto), il libro che narra vita e azioni del profeta Maometto, dei suoi compagni e seguaci, che insieme al Corano (di diretta rivelazione divina) e altri testi forma la Sunna, l'insieme della dottrina. L'Hadith 6924 recita: «L'ultima ora suonerà solo quando i Romani arriveranno a Dabiq. Allora verrà da Medina per contrastarli un esercito formato dagli uomini migliori dei popoli della terra».
E più in là: «Combatteranno e un terzo dell'esercito scapperà, e Dio non perdonerà loro. Un terzo formato da martiri graditi agli occhi di Dio verrà sterminato, mentre l'ultimo terzo vincerà senza combattere e conquisterà Rum». «Rum» (Roma) all'epoca di Maometto (VII secolo) si riferiva all'Impero romano d'Oriente, l'Impero bizantino, Costantinopoli. Ma nei secoli gli interpreti della profezia hanno trasferito la dicitura «Rum» ai cristiani, i Crociati, l'Occidente. E proprio la profezia, così importante nell'escatologia dell' Isis per le prospettive e le speranze dei suoi combattenti, spiega i continui riferimenti della propaganda alla conquista di Roma, con le bandiere nere a San Pietro. La rivista della propaganda degli islamisti s'intitola, non a caso, «Dabiq» Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero