ROMA «Ma non vedete che hanno già pronto il logo per il No al referendum?», ha fatto notare Matteo Renzi a quanti dei suoi spingevano per un accordo con la...
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STRADE PARALLELE
L'ennesima direzione annunciata come l'ennesima resa dei conti, da questo punto di vista ha deluso le aspettative. Non perché sia stato un dibattito al miele, anzi; ma perché le due fazioni hanno di fatto operato le loro scelte, ma per renderle chiare e manifeste si aspetta l'esito del referendum. E fino a quella data nessuno farà gesti di rottura senza ritorno, si è imboccato il cammino della drole de guerre, la strana guerra, quando il conflitto mondiale era scoppiato ma ancora sembrava di no.
E' toccata un bel po' di fatica, al premier segretario, fare quelle aperture sulla commissione che, post referendum, dovrà verificare la possibilità di cambiare l'Italicum, ma alla fine l'ha fatta (e del resto, non era Andreotti a teorizzare che «quando non vuoi far nulla, fai una bella commissione»?), Cuperlo e Speranza hanno fatto finta se non di accettarla, almeno di posticipare il redde rationem.
Fino a un minuto prima dell'inizio dei lavori si è cercato di mediare, trattare, trattare e mediare. Auspice l'attuale capogruppo, Ettore Rosato, e il suo precedessore, Roberto Speranza poi dimessosi per puntare al ruolo di anti-Renzi, si è cercato di trovare se non la quadra, almeno di evitare la rottura. Per il momento il titanico tentativo è stato apparentemente raggiunto, ma le strade tra Renzi e minoranza restano parallele, lontane. Prendendo a prestito un ragionamento esposto da Zagrebleski proprio nel dibattito tv con Renzi, la rottura sostanziale c'è già stata, quella formale ancora manca.
L'impressione è che nel Pd attuale maggioranza e minoranza marcino ormai come separati in casa. Con la frazione bersaniana che ha scelto di puntare tutte le carte sul No al referendum senza subordinate, e la fazione di maggioranza che punta tutto sull'opposto, sul Sì al referendum per farne poi la base di massa del futuro Pd a trazione renziana. «Ma anche se alla fine vincesse il No, che farà poi Bersani? Dove va? Farà la costituente di sinistra per puntare ad avere il 7-8 per cento? Mah, non li capisco», allargava le braccia alla Camera Beppe Fioroni prima di recarsi al Nazareno. «Certo, il prolungato silenzio di Veltroni mi inquieta un po'», aggiungeva poi sornione, ma chi ha parlato con il fondatore del Pd lo ha trovato sì amareggiato per questioni più personali che politiche, ma completamente schierato per il Sì e puntualmente pronto a difenderne ragioni e motivi.
CONGRESSO PERMANENTE
Si usa dire che nel Pd c'è il congresso permanente. In realtà, si è già svolto. Con i vari big che si sono già schierati. A cominciare da Dario Franceschini che appena diventato ministro aveva sciolto la corrente e teorizzato che non si sarebbe più occupato di politica partitica, e ache adesso è tornato con tutt'e due i piedi nell'agone. Si sono schierati con Renzi anche gli Orlando e i Martina, presenti l'altra settimana alla Camera del lavoro di Milano e in bella vista in foto di gruppo assieme a Finocchiaro, Fassino e Luigi Berlinguer, aspiranti a rappresentare la sinistra interna del Pd prossima ventura, critica quando serve, ma leale e soprattutto interna.
Non a caso Renzi ha fatto sapere di avere apprezzato parecchio l'intervento di Piero il lungo in direzione, specie quando Fassino ha smontato la peregrina tesi che il doppio turno affida a una minoranza il potere, «per parlare di corda in casa dell'impiccato, a Torino la Appendino ha vinto al ballottaggio avendo riportato il 31% al primo turno. E a preso il 60% dei seggi». Per l'ultimo segretario dei Ds, «ogni proposta che ridimensiona il maggioritario ci porta dritti a larghe intese e governi di coalizione, e noi del Pd con chi dovremmo farla la coalizione, con l'attuale Sel?». Dibattito tra sordi. L'esito del 4 dicembre servirà a sciogliere anche il nodo che attanaglia il Pd fin dal suo sorgere. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero