Visti da lontano/ Va ricucito lo strappo nel Paese

Visti da lontano/ Va ricucito lo strappo nel Paese
E così quasi un italiano su due residente all’estero ha votato. Non ci è noto se per il sì o per il no, e chiunque pensi di saperlo si trova in mala...

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E così quasi un italiano su due residente all’estero ha votato. Non ci è noto se per il sì o per il no, e chiunque pensi di saperlo si trova in mala fede. Ciò che in qualsiasi altro Paese sarebbe accolto come un ottimo segnale, una volta si sarebbe detto di «italianità», di legame di donne e uomini che, per scelta o necessità, hanno deciso di vivere oltre confine, da noi produce infatti polemiche senza esagerazioni definibili come lunari. Prima la minaccia del Comitato del No di ricorrere contro il risultato nel caso il Sì passasse con il contributo fondamentale di quei voti. Poi l’accusa che quei suffragi sarebbero stati «comprati» e, si presume, l’intenzione di denunciare brogli.


È bene ripetere la convinzione su cui questo giornale ha molto insistito: quello degli italiani all’estero non è un voto di serie B, diminuito, elargito da una folla oscura e senza nome di personaggi pittoreschi. Non sono più, o in minima parte, i soliti emigrati di cui è ricca la nostra iconografia, che meritano il massimo rispetto (e hanno contribuito ad arricchire il nostro Paese). Oggi sono manager, professori, scienziati, medici, ricercatori, imprenditori, finanzieri, artisti, architetti.

Ceto medio riflessivo, direbbe qualcuno, non certo disposto a farsi comprare o corrompere. E poi perché il governo avrebbe maggiori mezzi di pressione su questi elettori rispetto a quelli residenti in Italia, visto che le leggi e le misure di Palazzo Chigi li toccano in minima parte? Si potrebbe addirittura rovesciare il ragionamento: il voto degli italiani all’estero è quello più «puro», il più interessato al merito, all’immagine, alla stabilità (e alla reputazione) dell’Italia, quello meno inquinato dalle risse da osteria che hanno contraddistinto questa campagna.

Qualcuno ha osservato che, data la enorme posta in gioco del voto di domani, essa non poteva essere condotta a colpi di fioretto. E su questo si può essere d’accordo: la battaglia è politica, e la politica contrappone per sua essenza. Tuttavia le forme in cui si esplica questa divisione traducono sempre la compattezza del corpo nazionale, la convinzione che, tutto sommato, per parafrasare il linguaggio politico statunitense, il «sole sorgerà ancora sulla collina». E su questo, sulla coesione del nostro abito nazionale, le esperienze storiche non ci inducono ad essere ottimisti. Anche negli Stati Uniti la campagna presidenziale ha avuto toni oltranzisti e sgraziati, i due contendenti avendo definito l’altro «il demonio» in diverse occasioni. Poi però tutto si è ricomposto, le intenzioni di qualcuno di conteggiare di nuovo i voti sono state accolte con un sorriso di scherno anche dai giornali più anti-trumpisti. Potremmo per una volta cercare di fare lo stesso?


Niente sarebbe peggio, il 5 dicembre, quando i risultati saranno definitivi, che ascoltare giorni e giorni di denunce, invocazioni di brogli, minacce di ricorsi: per favore, non affidiamo anche questa pratica alla magistratura, neppure a quella amministrativa. Che gli «sconfitti» accettino serenamente il risultato e che i vincitori evitino il «non si fanno prigionieri». Dovesse imporsi il Sì, è bene rifuggire da purghe o vendette, benché possiamo capire che molti possano essere tentati. Nell’evenienza del No, ci si risparmi arlecchinate come i sit in sotto Palazzo Chigi. Se, come ha annunciato Renzi, nel caso di vittoria del Sì «la legge elettorale si può fare in tre mesi», occorrerà che il clima sia pacato. E che la lungimiranza, una virtù ormai rara, torni ad abitare nei costumi della classe politica.

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Il Messaggero