Rai e dintorni/ La tv pubblica eviti il modello Frankenstein

Rai e dintorni/ La tv pubblica eviti il modello Frankenstein
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Supponiamo di mettere un marziano di fronte ad uno schermo televisivo e di chiedergli qual è, a suo avviso, l’emittente di servizio pubblico in Italia. Sky, con i suoi canali di informazione, l’arte e le serie di alta qualità. O la Rai con le risse, i reality e la Gregoraci? Non credo ci siano molti dubbi sulla risposta. In Italia - ed è un caso unico in Europa - la bilancia della qualità pende più dal lato di Rupert Murdoch che da quello dello Stato.




Bella forza, direte voi, Sky è un canale d’élite, a pagamento, mentre la Rai deve parlare a tutti. Vero, ma fino a un certo punto. Intanto perché - tra canone e tasse - la Rai costa a ciascuno di noi più o meno quanto un abbonamento a Sky.



Ma soprattutto perché la televisione di Stato è impegnata da anni in una rincorsa verso il basso che l’ha condotta a smarrire completamente la propria identità, contribuendo al degrado della conversazione pubblica del Paese, senza emanciparsi dal canone che continua a costituire oltre il sessanta per cento dei ricavi. Il risultato è un Frankenstein che combina il peggio del pubblico (320 dirigenti su 1900 giornalisti, quasi tutti con la tessera) con il peggio del privato (oltre un miliardo all’anno speso per acquistare produzioni esterne).



In questi giorni, si riparla di riforma della Rai. C’è chi dice tagliamo, chi privatizziamo e tutti in coro, come al solito, a ripetere “fuori i partiti dalla Rai”. Ma il punto di partenza di qualsiasi riforma dovrebbe essere esistenziale, prima che giuridico o contabile. E alla politica dovremmo chiedere innanzitutto di fare un passo avanti su questo fronte, oltre al passo indietro sulle nomine dei direttori dei tg. Altrimenti il rischio è di generare nuovi equivoci. Che cos’è, oggi, una televisione di servizio pubblico? Non certo il trash continuo al quale siamo abituati da anni, ma forse neppure il ghetto dorato della rete “culturale”, virtuosa, senza pubblicità. Servizio pubblico non vuol dire mettere in piedi un paio di canali tematici che non vede nessuno e produrre ventidue documentari noiosissimi tanto per mettersi a posto la coscienza. Servizio pubblico vuol dire pensarle tutte per riabituare gli italiani - la maggioranza degli italiani, non una nicchia del due per cento - al confronto civile, alla curiosità e al piacere di una cultura che può cambiare il tuo sguardo sul mondo anche quando non te l’aspetti.



In Inghilterra, in Francia e in Germania, si sono resi conto che la riserva indiana dei canali tematici non basta. Va benissimo che ci siano reti consacrate alla cultura e all’arte, ma a frequentarle sono sempre i soliti quattro gatti. Se si vuole farli uscire dal ghetto, bisogna che i temi, le notizie e i dibattiti del mondo della cultura investano i telegiornali, le trasmissioni di attualità, i reality e le fiction di prima serata. Per questo il direttore generale della Bbc ha annunciato qualche mese fa una sorta di strategia “entrista” basata sull’impatto subliminale della cultura in luoghi inattesi. Una scommessa coraggiosa, che solo una vera televisione di servizio pubblico può fare. Nonostante i suoi difetti, la Rai ha ancora le risorse e le dimensioni per fare una scommessa del genere. Purché qualcuno si prenda la briga di alzare per un attimo lo sguardo dagli organigrammi per rivolgerlo all’orizzonte. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero