I quasi tre secoli di reclusione inflitti dal Tribunale di Roma all’esito del processo sul “Mondo di mezzo” sono un successo oggettivo per la Procura di Roma. Le...
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Questo dato di fatto non è scalfito dal mancato recepimento, da parte della Corte, di un punto qualificante dell’inchiesta deflagrata il 2 dicembre 2014, ossia la tesi della matrice mafiosa dell’ associazione penetrata come un tumore nel tessuto amministrativo della città.
È fisiologico, nella dialettica processuale tra accusa e giudice terzo, che il collegio capitolino non abbia recepito la visione estensiva del concetto di mafia patrocinata dalla Procura, volta a dare rilievo alla mera “riserva di violenza” e a condotte dirette ad attentare non solo alla vita, all’incolumità individuale e alla libertà personale, ma anche a beni quali l’iniziativa economica, la libertà d’impresa e le dinamiche concorrenziali.
Se dal punto di vista strettamente giudiziario la cancellazione della parola “mafia” dalle carte processuali non desta scalpore e non incide sull’importanza storica dell’indagine, ben diverse sono le conseguenze che l’accostamento della parola mafia all’urbs universalis ha prodotto in questi anni dal punto di vista dell’impatto sociale e dell’eco mediatica. Certo oltre e contro la volontà meritoria dei magistrati, il conio e la diffusione impazzita dell’accattivante marchio “Mafia Capitale” ha prodotto, a livello nazionale e mondiale, l’idea che la vita amministrativa della capitale sia dominata dalla mafia, se non addirittura, che Roma e mafia siano in qualche misura sinonimi. La voglia di semplificazione propria della modernità e la spinta falsificante delle “fake news” propalate via rete, hanno infatti trasmesso il messaggio, appetibile proprio perché grossolanamente falso, che il comune di Roma sia soggiogato dalla piovra e che addirittura Roma, come comunità, sia mafiosa o, almeno, dominata dalla mafia.
Il senso dell’indagine, volto a verificare la presenza nella struttura amministrativa di determinati soggetti operanti secondo logiche delinquenziali e metodiche mafiose, è stato così manipolato e distorto, con l’attribuzione di una squallida e falsa partente di mafiosità al comune nel suo complesso, all’amministrazione tutta, addirittura alla popolazione
È intuibile e difficilmente rimarginabile, nel breve periodo, il danno di immagine prodotto da questa manipolazione del significato e della portata di una sacrosanta azione della magistratura per una città che, più di ogni altra, vive di turismo, di bellezza, di storia e di cultura. Di immagine, quindi.
Se la sentenza pronunciata due giorni fa dovesse trovare conferma all’esito di un “iter” processuale che si preannuncia ancora lungo, avremmo, sul piano amministrativo e sociale, la buona notizia della restituzione della culla della nostra civiltà a una dimensione certo non scevra da problemi anche criminali, ma non soffocata dai tentacoli della Piovra; ma soprattutto una lezione sulla necessità di scegliere con cura le parole e le locuzioni con cui si diffondono a beneficio del pubblico i fenomeni giuridici e le operazioni giudiziarie. “Le parole vanno scelte con cura”, ammonisce Don Milani, perché toccano sempre i sentimenti, la carne e il sangue degli uomini e delle donne. “Ogni parola produce delle conseguenze”, soggiunge Sartre. Specie quando, come nel caso dell’uso della parola “mafia” per etichettare la “capitale” le parole non riguardano i destini dei singoli ma i valori e la dignità di una collettività seria e operosa.
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Il Messaggero