Palermo, trattativa Stato-Mafia parla Mancino: «Nessun accordo, ho detto la verità»

Nicola Mancino all'inizio di una udienza
La sentenza è attesa per la fine di questa settimana. Oggi però, nel corso dell'ultima udienza, ha preso la parola l'ex ministro Nicola Mancino. Si è...

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La sentenza è attesa per la fine di questa settimana. Oggi però, nel corso dell'ultima udienza, ha preso la parola l'ex ministro Nicola Mancino. Si è rivolto alla corte d'assise di Palermo che dovrà emettere la sentenza e ha ripetuto quel che da sempre va dicendo: lui la mafia l'ha combattuta senza arretrare mai. Mancino è l'unico imputato del processo sulla cosiddetta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra a rivolgersi ai magistrati prima della camera di consiglio che deciderà le sorti del dibattimento.


«Ho sofferto in tutto questo periodo e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità», dice respingendo l'imputazione per cui è finito a giudizio: l'avere mentito davanti ai giudici che processavano il suo attuale coimputato, il generale Mario Mori, per favoreggiamento al boss Bernardo Provenzano. Un giudizio «clone» rispetto a quello in corso sulla trattativa conclusosi con l'assoluzione dell'ufficiale. Il reato che si contesta a Mancino e per cui i pm hanno chiesto la condanna a 6 anni è dunque la falsa testimonianza.

Altra cosa rispetto alla minaccia a Corpo politico dello Stato e al concorso in associazione mafiosa contestate agli altri imputati: i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, Massimo Ciancimino, Marcello Dell'Utri, il pentito Giovanni Brusca e gli ex vertici del Ros. Mancino avrebbe detto il falso, negando che l'allora Guardasigilli Claudio Martelli, già nel '92, gli avesse accennato ai suoi dubbi sull'operato dei carabinieri di Mori e sui suoi rapporti con l«ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
«​Non ne abbiamo mai parlato»​, ha sempre detto Mancino, smentendo il collega di governo. «​E non capisco perché tra me e Martelli si debba credere a lui»​, ribadisce oggi.

In effetti sulla discordanza tra le testimonianze un tribunale si è già pronunciato, sollevando dubbi forti sulla ricostruzione dell'ex Guardasigilli. Ma questo non è bastato a »salvare« l'ex ministro dell'Interno messo, secondo i pm, alla guida del Viminale perché fautore di una linea più soft verso la mafia rispetto al suo predecessore Vincenzo Scotti. Una scelta che, per l'accusa, rientrava tutta nella trattativa intavolata dallo Stato, tramite il Ros di Mori, e fatta di concessioni e impunità ai boss in cambio della fine della stagione stragista. Su un punto, però, Mancino accenna a un'autocritica: »a posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D'Ambrosio. Ma ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica«, spiega ai giudici ricordando le conversazioni intercettate con l'ex consigliere giuridico del Colle in cui l'ex ministro cercava di evitare il confronto, chiesto dalla Procura, con Martelli.
Intercettazioni che, secondo l'accusa, proverebbero il timore di Mancino nell'affrontare davanti al tribunale l'ex collega.


«​Per me era un confronto inutile - spiega però - E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l'avocazione dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ma solo il coordinamento dell'azione delle sei procure coinvolte nell'indagine. C'era troppa confusione: basta pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla Procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta»​. Subito dopo la difesa di Mancino la corte entra in camera di consiglio. L'accusa si era congedata con una polemica finale con le difese e i toni tenuti durante le arringhe. Ma gli avvocati non replicano. Il verdetto è atteso nei prossimi giorni: per la procura sarà presente anche Nino Di Matteo, pm storico del processo ora in Dna. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero