È appeso a un avverbio, «probabilmente», il verdetto britannico che accusa Vladimir Putin della morte di Aleksandr Litvinenko, avvelenato quasi 10 anni fa nel...
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Parole pesate, ma pesantissime. Che chiamano in causa per nome - con accuse che a Londra fanno gridare al «terrorismo di Stato» - il leader della seconda potenza nucleare del pianeta e l'allora capo dei servizi segreti interni. E a cui Mosca replica parlando d'una «pseudo-indagine che rovina i rapporti» e ventilando «conseguenze». Il rapporto Owen è in realtà pubblico solo in parte. Non pochi documenti e testimonianze restano top secret per volere del governo Cameron e degli 007 dell'MI6. Ma ciò che accredita è pura dinamite.
Litvinenko, transfuga a Londra fin dal 2000 dopo essere entrato in rotta di collisione con il Cremlino ed essersi avvicinato all'oligarca-ribelle Boris Berezovski, avrebbe pagato le accuse a Putin e al sistema di potere russo, dalla Cecenia alle presunte infiltrazioni del crimine organizzato, ma soprattutto l'essersi messo al servizio dell'MI6 britannico mentre otteneva la cittadinanza del regno in tempi record. La sua morte, avvenuta il 23 novembre 2006 al culmine di un'atroce agonia di fronte agli impotenti medici del London's University College Hospital, fu conseguenza di una sindrome acuta da radiazioni, tre settimane dopo aver bevuto un fatale tè al Pine Bar del Millenium Hotel di Mayfair assieme a Lugovoi e a Kovtun, si legge nel testo.
«Sono sicuro che il signor Lugovoi e il signor Kovtun abbiano messo il polonio 210 nella teiera di Litvinenko al Pine Bar», afferma oggi senza incertezze Owen. Ma le accuse a questi comprimari scolorano di fronte a quelle rivolte ai sancta sanctorum del Cremlino. E - seppure in termini probabilistici - allo 'zar' in persona. La convinzione di sir Robert è che si sia trattato in qualche modo di «una faida», una resa dei conti nella confraternita dell'ex Kgb. Segnata «indiscutibilmente - sono parole sue - anche da una dimensione di antagonismo personale» Putin-Litvinenko risalente almeno al 1998, quando il secondo fu messo fuori dai ranghi. Sia come sia, il sospetto è ora sul tavolo, in tutta la sua gravità.
E Downing Street deve fronteggiare le pressioni di chi chiede risposte dure. Prima fra tutti la vedova della vittima, Marina Litvinenko, per anni indomita in prima linea nella battaglia per ottenere «giustizia per Sasha» e che ora invoca sanzioni individuali e divieto d'ingresso in Gran Bretagna per tutte le persone citate nelle carte, «inclusi Patrushev e Putin». Il rapporto - commenta quasi sollevata al fianco del figlio Anatoli, 12enne quando il padre morì - «conferma le parole dette da mio marito sul letto di morte». Il quale, rivolgendosi ormai stremato e senza un capello in testa a Putin, concluse il suo j'accuse così: «Che Dio ti perdoni per ciò che hai fatto non solo a me, ma all'amata Russia e al suo popolo».
Il governo Cameron non può tuttavia attendere il giudizio divino. Così oggi è scattata la convocazione dell'ambasciatore russo. Ma al di là della retorica, Norman Smith, commentatore politico della Bbc, intravvede una risposta britannica «cauta e circoscritta». Anche e soprattutto per le esigenze diplomatiche legate alla Siria e alla guerra all'Isis. Lo stesso ministro dell'Interno, Theresa May, presentando il rapporto Owen alla Camera dei Comuni, ha usato espressioni forti («plateale e inaccettabile violazione delle relazioni internazionali»), ma ha annunciato per ora il congelamento degli asset di Lugovoi e Kovtun, entrambi al sicuro in patria, e poco altro. «Risposta debole» secondo molti deputati, a cominciare dal ministro ombra laburista, Andy Burnham, che ha reclamato semmai una ritorsione asimmetrica contro l'organizzazione in Russia dei prossimi campionati del mondo di calcio nel 2018.
Da Mosca il fuoco preventivo è d'altronde già partito.
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Il Messaggero