Sulle loro labbra la parola che torna ricorrente è vendetta. Sono sopravvissute all'orrore, ma per loro nulla è più lo stesso: hanno assistito allo...
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«Ora noi ci difendiamo dal male – ha detto a Fox News Khatoon Khider, una delle combattenti da un accampamento di fortuna a Duhok, in Iraq – Stiamo proteggendo tutte le minoranze nella regione. Faremo tutto ciò che ci viene richiesto». Khider è una delle 123 donne yazidi, tra i 17 e i 37 anni, che fanno parte delle “Sun Girls” e si sono schierate accanto alle forze peshmerga curde.
Un numero destinato a essere rimpolpato, visto che altre 500 donne sono in attesa di formazione: verranno addestrate dai guerriglieri curdi che insegneranno loro in particolare a utilizzare i fucili Ak-47.
Khider, prima di unirsi al commando in rosa, non aveva alcuna esperienza nell'uso delle armi o in combattimento: adesso, dopo l'addestramento, spera che altre donne siano in grado di proteggere loro stesse. «La nostra forza è un modello per le altre donne nella regione - ha detto - Vogliamo ringraziare tutti i Paesi che ci aiutano in questo momento difficile, vogliamo che tutti prendano le armi e siano in grado di proteggersi dal male».
Ora per le prime di loro, dopo mesi di formazione, arriva il primo banco di prova. Hanno già partecipato a operazioni militari aiutando i peshmerga a liberare i villaggi occupati dall'Isis, ma adesso si punta alla grande sfida che ha un solo nome: Mosul, la base del gruppo terroristico. È lì che molte yazide sono state portate come schiave del sesso, ed è lì che dovranno tornare per vendicarsi e liberare le donne rimaste in mano ai jihadisti. «Ci sono tantissime donne ancora a Mosul – ha continuato Khider - Le loro famiglie le aspettano e la liberazione potrebbe aiutare a riportarle a casa».
Negli occhi Khider e le sue sorelle hanno il fuoco. Non potranno mai dimenticare ciò che hanno visto, ciò che hanno subìto. La popolazione yazida è stata quella più colpita dalle violenze dello Stato islamico, iniziate con l’occupazione della provincia di Sinjar, nel nord dell’Iraq, poco dopo la caduta di Mosul nel giugno 2014. «Quando l'Isis è arrivato, le donne lanciavano i figli dalle montagne. Poi saltavano pure loro. Era considerato un modo veloce per morire. Avevamo le mani legate, non potevamo fare nulla per fermarle – ha ricordato Khider - Ogni volta che scoppia una guerra, le nostre donne sono le prime vittime». Alle donne prese come prigioniere è stato ordinato di convertirsi all'Islam e sottoporsi a matrimoni forzati. Per la maggior parte di loro finire nelle mani dei jihadisti ha rappresentato la discesa negli inferi: vendute al miglior offerente, picchiate, stuprate regolarmente anche da più uomini.
Alcune sono riuscite a fuggire e a tornare dalle loro famiglie, ma molte altre sono morte a volte di fame, a volte dissanguate dopo violenti stupri. Non c'è stata pietà nemmeno per le bambine, vendute e violentate e ridotte a schiave del sesso. «Ricordo che una volta una donna partorì il figlio del suo violentatore - ha detto Khider – Alla donna non era consentito di allattare il figlio. Un giorno il neonato urlò e il jihadista lo decapitò».
Adesso le donne che sono riuscite a fuggire non si accontentano di tornare a casa: dopo aver ricevuto la benedizione delle loro famiglie sono pronte per la battaglia. «È importante per noi essere in grado di proteggere la nostra dignità e il nostro onore – ha detto Mesa, 19 anni, un'altra combattente delle “Sun Girls” - La mia famiglia è molto orgogliosa; mi hanno incoraggiato a unirmi al gruppo. Sono felice di proteggere la mia gente e, dopo quello che ci è accaduto, noi yazidi non abbiamo più paura».
Solo un pensiero tormenta le combattenti yazidi: ritrovarsi faccia a faccia con il sangue del loro sangue, donne e uomini della loro popolazione che, dopo il lavaggio del cervello o soltanto per sopravvivere, si sono uniti al Califfato. Madri, sorelle e fratelli pronti a combattere sotto la bandiera nera dell'Isis. «Ora ci saranno yazidi terroristi, qualcosa che non era mai successo prima – ha concluso Khider - Ma noi abbiamo una missione e faremo ciò che è necessario». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero