Un anno di governo/ Il gentilonismo con o senza Gentiloni

Un anno di governo/ Il gentilonismo con o senza Gentiloni
L’espressione «gentilonismo» non si trova nei dizionari della politica, neanche nei più aggiornati. Eppure, il «gentilonismo» esiste. E...

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L’espressione «gentilonismo» non si trova nei dizionari della politica, neanche nei più aggiornati. Eppure, il «gentilonismo» esiste. E compie ora il suo primo anno di vita anche se sembra passato molto più tempo. All’insegna di una fragilità che è diventata continuità. E di sicuro dovrà fare i conti, con questa ricetta che evita i clamori, con questo metodo “impopulista” alternativo a Grillo e dotato di un suo linguaggio (nel «gentilonese» abbondano espressioni del tipo: trasmettere l’impressione di un potere che non pretende di guidare), chi verrà dopo l’attuale premier. Perché il «gentilonismo» con la sua struttura morbida e complessa ha rappresentato una tregua e il suo titolare è diventato l’incarnazione di una decantazione. 


Del resto un decanter a che cosa dovrebbe servire, se non a valorizzare i vini migliori? Sia quelli d’annata (Berlusconi oggi apprezza il «gentilonismo» e ci si è messo in sintonia) sia quelli più giovani. Infatti Renzi comincia a interrogarsi su questa ricetta che doveva servire per una parentesi e per una supplenza e che sta rivelando invece, per l’effetto rassicurazione che emana, uno strano sapore pop (occhio agli indici di gradimento secondo cui il 49 per cento degli italiani apprezza o comunque giudica sufficiente l’operato di Gentiloni). 

Quando c’è la fase agonistica, il «gentilonismo» non può trovarsi a suo agio e durante la campagna elettorale non sarà facile per Gentiloni districarsi tra gli obblighi di partecipazione di partito, il profilo non muscolare e quasi super-partes o intra-partes che si è dato e il servizio istituzionale che continuerà ad esercitare a Palazzo Chigi, come gli ha chiesto il presidente Mattarella, fino all’insediamento del prossimo governo. Finora, però, questo approccio da traghettatore si è ben adattato alla fase di transizione. Quella cominciata dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016, che ha segnato la momentanea fine di un’idea bipolare del gioco politico e della contrapposizione netta tra due schieramenti. Che risaliva a un altro referendum: la consultazione del 9 giugno 1991, con cui vennero abolite le preferenze multiple e con cui si concluse di fatto la Prima Repubblica. E insomma la parabola del «gentilonismo» spiega molto di come è cambiata l’Italia. 

Ed è inutile chiedersi se esso sia vintage o post-moderno. Certamente questa particolare forma di leadership-non leadership ha nella flessibilità, e nell’assenza di spirito di minaccia nei confronti di partner e avversari, il suo forte e a questo si deve la sua silenziosa avanzata. Poi si vedrà se il «gentilonismo» davvero è diventato una scuola di governo che tornerà utile all’indomani del voto, a beneficio delle soluzioni politiche che si renderanno opportune o necessarie in caso di non vittoria netta di uno dei tre schieramenti. 

Nella terra incognita del dopo, uno che non proclama di voler cambiare l’Italia ma di voler risolvere la pena del giorno senza che nessuno si faccia troppo male - e questo ha fatto finora colui da cui il «gentilonismo» prende il nome - potrebbe risultare la carta più adatta al contesto e, di nuovo, la meno insidiosa per gli altri giocatori. Quanto al titolare di questa ricetta non urticante, con un passato remoto nell’ultra-sinistra, un passato prossimo da candidato perdente alle primarie per il sindaco di Roma e una costante che è quella di non avere truppe né grande forza elettorale in proprio (il che gli giova perché non impaurisce nessuno), egli è chiaramente non un Superman e non un Everyman. 


E’ stato paragonato all’«Uomo che non c’era», il protagonista del film dei fratelli Coen, e «io non esisto» appare ripetere ogni volta l’attuale premier, scatenando la sensazione contraria: una tenace volontà di esistenza. Però bisognerà vedere. Il «gentilonismo» potrebbe sopravvivere con o senza Gentiloni oppure finire con lui. 
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Il Messaggero