Foto sui social e telecamera sul mitra: ora il kamikaze uccide in diretta web

Foto sui social e telecamera sul mitra: ora il kamikaze uccide in diretta web
PARIGI Dieci molotov, una bandiera nera dell'Isis, e una GoPro: sui sedili posteriori della Citroen nera abbandonata il 7 gennaio 2015 nella rue de Meaux scappando dalla...

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PARIGI Dieci molotov, una bandiera nera dell'Isis, e una GoPro: sui sedili posteriori della Citroen nera abbandonata il 7 gennaio 2015 nella rue de Meaux scappando dalla redazione di Charlie, i fratelli Kouachi lasciano quasi tutto il loro arsenale. I kalashnikov, le munizioni e i giubbotti antiproiettile li porteranno fino alla fine, dentro la tipografia di Dammartin dove le teste di cuoio li ammazzeranno due giorni dopo.

Quello che la polizia ritrova nell'auto dice già tutto, ci sono le armi per fare strage, la bandiera per firmare, e la piccola videocamera per tutto il resto. Perché chi vincerà la guerra del terrorismo, come dicevano già vent'anni fa i futurologi americani della Rand Corporation, «non è quello che avrà la bomba più grossa, ma chi racconterà la storia migliore». L'Isis non ha aspettato la fine dell'attacco a Dacca per pubblicare le foto dei cadaveri, corpi riversi nel sangue tra i tavolini. Il terrore è andato in onda in diretta in Bangladesh. Le foto prima della fine. Come Larossi Abballa: la sera del 13 giugno è sul live di Facebook che rivendica la morte di due poliziotti alla periferia di Parigi. Dietro di lui, sul divano, si vede il figlio di tre anni della coppia.
Filmare gli occhi della vittima che muore, filmare la strage, il sangue, magari piazzando la videocamera sulla canna della mitra, (l'effetto è «pazzesco, da videogame, meglio di Call of Duty», come insegnano quelli di Al Hayat media center, l'ufficio comunicazione dell'Isis) serve anche a continuare a vivere dopo che aver attivato la cintura esplosiva.

LA CYBERWAR
Ci si aspettava la Cyberwar la guerra high tech, assistita da computer e nuove tecnologie, e invece si combatte la Netwar, la guerra in rete, da Utoya fino a Dacca. Lo sapeva già Mohamed Merah. L'11 marzo 2012 comincia la sua settimana di sangue a Tolosa. Uccide prima un militare, poi altri due, poi il 19, entra nella scuola ebraica di Otzar Hatorah e uccide un insegnante, i suoi due bambini e la figlia del preside: 8 anni. Per avere le mani libere e non dare nell'occhio, ha fissato la GoPro sul petto. Filma tutto. Sarà ucciso al termine di un assedio di 36 ore dalle teste di cuoio il 22 marzo, a casa sua. Ha avuto il tempo di portare a termine la missione: scarica il video sul pc e produce un film di 25 minuti che invia alla sede francese di Al Jazeera. I pochissimi che hanno visto il video parlano di «immagini insopportabili», raccontano di come Merah abbia gestito la «regia», di come sia andato sempre il più vicino possibile alle sue vittime.
Prima di Merah, su un fronte diverso non meno sanguinario, Anders Breivik aveva già teorizzato nei suoi scritti che la GoPro «doveva fare parte dell'arsenale del cavaliere giustiziere»: «Questa camera compatta, piccolissima e leggera - aveva scritto servirà a rendere conto della vostra operazione». Non della sua però: Breivik non farà un video dei 77 ragazzi ammazzati a Utoya il 22 luglio 2011.
 
NEL MUSEO EBRAICO
Soltanto un problema tecnico, invece, impedirà a Mehdi Nemmouche di azionare la GoPro che aveva fissato sulla tracolla del suo zaino quando, il 24 maggio 2014, entra nel museo ebraico di Bruxelles e uccide 4 persone.

Tornando a Parigi e al gennaio 2015, non sono soltanto i fratelli Kouachi ad aver cercato di registrare il massacro a Charlie: anche Amedy Coulibaly, quando il 9 gennaio intorno all'una entra nell'Hypercacher di Vincennes, ha una videocamera sistemata sul giubbotto nero sotto al quale nasconde il kalashnikov. Riprende tutto: la morte dei quattro ostaggi, le suppliche degli altri, i negoziati e si fa aiutare da un ostaggio per trasferire il video sul suo computer. Il giorno prima, con la stessa camera, aveva filmato la sua rivendicazione-testamento.
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Il Messaggero