Il dopo voto/ I leader lo dicono ma non lo pensano per i numeri incerti

Il dopo voto/ I leader lo dicono ma non lo pensano per i numeri incerti
Renzi, intervistato l’altro giorno, ha escluso larghe intese con Berlusconi dopo il voto del prossimo anno. Ma anche...

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Renzi, intervistato l’altro giorno, ha escluso larghe intese con Berlusconi dopo il voto del prossimo anno.

Ma anche Berlusconi, parlando ieri a Ischia, ha escluso (per storia personale e ideologia) un accordo politico con Renzi dopo la chiusura delle urne. Nel linguaggio antifrastico della politica italiana – si dice il contrario di ciò che si pensa con l’obiettivo di fare il contrario di ciò che si è promesso – ciò dovrebbe significare che i due sono pronti a governare insieme. Va da sé, nell’interesse superiore della nazione.

D’altro canto il Rosatellum – sempre ammesso che vada in porto e che al Senato non ci scappi uno scherzetto – sembrerebbe nato proprio con questi due obiettivi. Il primo, tattico: neutralizzare il M5S attraverso la tenaglia rappresentata dalle due coalizioni di centrodestra e di centrosinistra (povero Di Maio che già si vedeva convocato al Quirinale per formare il governo come capo del partito più votato). Il secondo, strategico: permettere a Renzi e Berlusconi di incassare un cospicuo bottino parlamentare per poi liquidare gli alleati delle rispettive coalizioni e mettersi in società secondo la formula della “grande coalizione”. Ma per una volta, seppure abituati a leggere tra le righe dei discorsi politici e a maliziare sul significato recondito o segreto delle dichiarazioni fatte dai leader, proviamo a chiederci se per caso le cose non stiano davvero per come vengono presentate. Se dunque Berlusconi dice di non volersi accordare col suo giovane emulo di sinistra, perché non prenderlo sul serio e alla lettera?

I due all’inizio di questa legislatura hanno anche provato ad accordarsi: si ricorderà il patto cosiddetto del Nazareno. Ma si è visto com’è finita quando si trattò di decidere insieme la cosa più importante: il nome del nuovo Capo dello Stato. L’intesa della penultima ora fu sul nome di Giuliano Amato. La decisione dell’ultima ora (presa in solitaria da Renzi, smentendo quando concordato con gli emissari del Cavaliere) fu sul nome di Sergio Mattarella. Una furbata? Una prova di forza? Sta di fatto che da allora è iniziato il lento declino dell’ex Sindaco di Firenze. In politica si può fare tutto, compreso tradire gli amici, ma non si possono disdire i patti sottoscritti con i nemici: sono cose che poi si pagano duramente, come in effetti è accaduto. Da quel momento, per farla breve, i due hanno smesso di fidarsi l’uno dell’altro. E se in politica gli umori, i caratteri e le personalità contano talvolta più delle idee e dei programmi davvero non si capisce come possa un giorno realizzarsi un Nazareno bis o tris. Quando durerebbe? Avrebbe basi davvero fragili.

D’altro canto Berlusconi coglie facilmente nel segno quando, per smentire qualunque futuro accordo con la sinistra, richiama la sua storia politico-ideologica. Il Cavaliere è quello che nella storia dell’Italia repubblicana ha introdotto la formula, sino a quel momento inedita, del centrodestra. S’è sempre presentato come il federatore (e il garante) di tutte le forze rappresentative dell’Italia moderata (altro suo fortunato conio politico-linguistico). E’ stato il suo merito (per chi lo riconosce come tale). Certamente resta il suo orizzonte politico: l’unico che, alla sua ormai veneranda età e dopo tante battaglie (vinte e perse), possa ancora cavalcare con qualche credibilità. S’è inventato l’Italia bipolare e la democrazia dell’alternanza. E’ vero che nel frattempo le condizioni sono cambiate e che siamo tornati in un clima politico-culturale di antico stampo proporzionalistico. Ma è lo stesso difficile pensare che il Cavaliere voglia chiudere la sua carriera come campione dell’Italia consociativa.

D’altro canto con questa legge elettorale, che appunto favorisce le coalizioni e fra tutte soprattutto quella di centrodestra, con le divisioni che attraversano la sinistra, col clima di restaurazione moderata che si respira, Berlusconi rischia davvero di vincere. Lui con i suoi storici alleati, senza bisogno di buttarsi a sinistra per amor di patria o – come sostengono i suoi amici e cattivi consiglieri del Foglio – per farsi dare il patentino di statista e di padre della patria (che tanto la sinistra non gli darà mai). Al Cavaliere in questi anni è bastato restare fermo, riproporre il suo Sé come vent’anni fa, senza nulla togliere o aggiungere, per mangiarsi uno dopo l’altro i suoi avversari e competitori. Salvini, che sembrava chissà quali ambizioni avesse, s’è acconciato ad una legge elettorale che lo costringerà a riconoscere il Cavaliere come capo-coalizione ancora una volta. Anche perché, Matteo se ne sarà finalmente accorto, mentre lui vagheggiava la Lega sovranista e nazionale, concorrenziale al berlusconismo, la Lega dei governatori, quella storica del Nord, autonomista e territoriale, quella insomma di Maroni e Zaia, ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di muovere guerra a Berlusconi. Proprio Maroni ieri non ha potuto essere più chiaro: “Lui è immortale, è una garanzia”. Ma parlava appunto di Silvio, dal quale ha incassato l’appoggio pubblico per il suo referendum autonomistico del 22 ottobre, non di Matteo.

Quanto a Renzi, a Berlusconi ha rubato quasi tutto: lo stile di comunicazione, i temi di battaglia, le furbizie dialettiche, ma non i sostenitori. Non è bastato emularlo per accreditarsi, nei panni del giovane riformista di sinistra che si fa carico degli interessi del moderatismo, presso il vecchio elettorato di centrodestra. Che prima s’è rifugiato nell’astensionismo e ora si prepara, annusata nuovamente l’aria di vittoria, a tornare all’ovile. Tra l’altro ancora non abbiamo visto niente di quella che sarà la campagna elettorale che il Cavaliere metterà in piedi per riprendersi ciò che è suo. Ci divertiremo ancora una volta, ci saranno nuovi argomenti di studio per i corsi di Comunicazione politica e già ci si chiede cosa scriveranno l’Economist o il New York Times quando dovranno spiegare “come è stato possibile”. D’altro canto, questa benedetta formula della “grande coalizione”, che ancora manda in solluchero qualche analista e osservatore, è dappertutto in crisi in Europa (da domani forse sarà un ricordo anche in Austria, dove la si è praticata per decenni).


E dunque non si capisce perché, nella fase terminale della sua fortuna storica, la si debba adesso auspicare per l’Italia. Nate nel segno della responsabilità, da condividere al governo tra le forze popolari cattoliche e socialiste, le grandi coalizioni col tempo sono diventate una prassi spartitoria del potere. I partecipanti al patto hanno finito per somigliarsi sempre di più, annullando le reciproche differenze culturali e ideali. E tutto ciò ha rappresentato un formidabile argomento polemico e propagandistico per i partiti cosiddetti populisti o di protesta. Difficile pensare che proprio in Italia un a formula così usurata possa adesso rappresentare una panacea politica all’ingovernabilità che altrimenti ci aspetta. Insomma, ieri il Cavaliere è parso sincero quando ha spiegato cosa si aspetta dalle prossime elezioni e cosa intende fare per rivincere col suo centrodestra. Ha mentito platealmente solo su un punto: quando ha detto che senza ottenere la maggioranza dagli italiani si ritira dalla politica. Si vabbè, ciao core…
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Il Messaggero