Consenso e riforme/ I grandi numeri sono una sfida per il Presidente

Consenso e riforme/ I grandi numeri sono una sfida per il Presidente
Parigi, agosto 1815. Poche settimane dopo Waterloo e il crollo finale di Napoleone, le elezioni diedero al re Luigi XVIII, il sovrano della Restaurazione, una maggioranza...

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Parigi, agosto 1815. Poche settimane dopo Waterloo e il crollo finale di Napoleone, le elezioni diedero al re Luigi XVIII, il sovrano della Restaurazione, una maggioranza schiacciante, di 350 deputati «ultramonarchici» su 400. Parigi, giugno 2017. In proporzione è la medesima maggioranza di cui possono usufruire il governo Philippe e il presidente Macron. Come due secoli fa, il corpo elettorale francese ha regalato al capo dello Stato una nuova «camera introvabile», come fu chiamata quella di allora per via delle dimensioni esorbitanti della maggioranza. A Macron, dai più caldi dei suoi ammiratori paragonato a Napoleone, dispiacerà essere avvicinato al monarca restauratore, ma non si registrano altri casi simili nella storia successiva. Certo, nel 1993 la destra repubblicana guidata da Chirac raccolse l’80% dei deputati, più di Macron oggi, ma era una coalizione di partiti in cui gollisti e giscardiani esercitavano lo stesso peso. Oggi invece la maggioranza è detenuta da un solo partito, se si eccettua il piccolo contributo di Bayrou. Vi sono però altre novità.


La République en marche è nata pochi mesi fa, e soprattutto non è un partito. Non ha (ancora?) sedi, non ha iscritti, non ha radicamento: più che un movimento, funziona come una start-up. Altro inedito: i suoi deputati compongono un amalgama di imprenditori, di professionisti, di giovani diplomati nelle scuole di élite, molti dei quali estranei all’impegno politico. Ciò non ha impedito loro di sbaragliare nei collegi notabili gollisti e socialisti, in alcuni casi parlamentari fin dagli anni Settanta del secolo scorso. Come hanno condotto la campagna i macronisti? Con la loro faccia (sconosciuta) accanto a quella di Macron. E’ grazie a lui, e solo a lui, se sono stati eletti. Ulteriore stranezza: questa maggioranza sosterrà un governo in cui i posti chiave, a cominciare da quello di primo ministro, sono detenuti da esponenti formalmente ancora iscritti ai Républicains, il principale partito dell’opposizione. Una sequela di novità che rende difficile avventurarsi in previsioni, con il rischio di essere subito sbugiardati. Di certo, almeno sul breve periodo, Macron e il suo governo potranno realizzare tutto quello che hanno in programma, senza temere imboscate, giochi di corrente, ostruzionismi, che spesso hanno frenato le intenzioni dei due precedenti inquilini dell’Eliseo.


Ed è ottima cosa, in generale e soprattutto in questo periodo, quando gli esecutivi europei si reggono su maggioranze composite, complesse, e comunque quasi sempre sul filo di lana. E’ bene però non farsi coinvolgere dall’entusiasmo; ci andremmo piano prima di titolare, come fa «L’Economist», «Macron il salvatore dell’Europa». Nella storia, infatti, i governi con maggioranze eccessive spesso non sono riuscite a governarle: come si accorse già due secoli fa Luigi XVIII o, più vicino a noi, Berlusconi dopo il trionfo di PDL e Lega nel 2008. Non bisogna confondere infatti maggioranza parlamentare con radicamento del consenso. E soprattutto oggi. Al primo turno hanno votato per la République en marche solo 7 milioni di francesi: una cifra molto più bassa rispetto a quelle raccolte negli ultimi anni da socialisti e da gollisti quando vincevano (hanno sempre superato i 10 milioni di voti). Con il 42% di votanti registrati ieri, poi, solo uno scriteriato intravedrebbe un’onda macronista. Un’astensione qui, più che in altri casi, socialmente determinata: sono rimasti lontani dai seggi gli elettori delle classi popolari, che alle presidenziali avevano scelto Le Pen e Mélenchon. Infine c’è da temere la maledizione della V Repubblica, un ottimo sistema, stabile e decisionista ma in cui i presidenti sono portati a forzare le riforme senza coinvolgere i corpi sociali. Che oggi potrebbero trovare il loro sfogo nella «rue», cioè la piazza: per fermare la quale c’è solo la polizia. Ma forse sono solo considerazioni da gufi o da invidiosi costretti a vivere in un sistema politicamente paludoso. Attendiamo solo di essere smentiti.
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Il Messaggero