Corea del Nord, ora la Cina scarica Kim: «Difenderlo? Forse no»

Corea del Nord, ora la Cina scarica Kim: «Difenderlo? Forse no»
Difendere la Corea!, Recitava uno slogan maoista dei tempi della Guerra del 1950-1953. Pechino - dopo che le truppe statunitensi, accorse in appoggio a quelle sudcoreane, erano...

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Difendere la Corea!, Recitava uno slogan maoista dei tempi della Guerra del 1950-1953. Pechino - dopo che le truppe statunitensi, accorse in appoggio a quelle sudcoreane, erano arrivate al confine cinese - entrò in guerra per sostenere il nord e Kim Il-sung (nonno di Kim Jong-un), di cui oggi ricorre il 105° anniversario della nascita. Per la neonata Repubblica popolare cinese quel conflitto rappresentò un trauma profondo, perché il suo intervento al fianco dei cugini nordcoreani decretò una lunga rottura con l'Occidente e l'allineamento al blocco sovietico. Quasi 55 anni dopo quella carneficina che lasciò sul terreno almeno 400 mila morti e inalterato il confine (lungo il 38° parallelo) tra il nord della Penisola, comunista, e il sud, allineato all'America, si ripropone lo stesso schema, con Pechino pronta a difendere Pyongyang se quest'ultima verrà colpita dagli Stati Uniti? Sembra di no. Al contrario la Cina pare aver scaricato il trentatreenne Kim Jong-un. Ieri South China Morning Post, quotidiano del miliardario cinese Jack Ma, titolava che, in caso di attacco Usa, Pechino non è obbligata a difendere la Corea del nord, con la quale è alleata e, nel 1961, sottoscrisse un trattato di assistenza.


LA PREMESSA
Il giornale in lingua inglese del proprietario di Alibaba riporta le analisi di diplomatici e osservatori militari cinesi (utilizzate per esprimere, in via non ufficiale, gli orientamenti del governo di Pechino) secondo i quali, violando le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu (che gli proibiscono esperimenti atomici e test missilistici), il giovane dittatore nordcoreano sta attentando alla pace e alla sicurezza globali e, dunque, Pechino non è obbligata ad accorrere in soccorso dei cugini comunisti. Ieri il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, ha ammesso che «si ha la sensazione che un conflitto potrebbe scoppiare in qualsiasi momento», ma ha aggiunto che, in caso di guerra, «non ci sarebbero vincitori né vinti». Chiunque provocasse la guerra - ha avvertito Wang - «se ne assumerebbe la responsabilità storica e ne pagherebbe il prezzo corrispondente». La leadership cinese non appoggia più Pyongyang senza se e senza ma. Lo stesso presidente Trump ha rilevato, in un'intervista al Wall Street Journal, che prima di incontrare in Florida il suo omologo cinese, Xi Jinping, riteneva che i cinesi avessero una maggiore influenza sui nordcoreani. È qualche anno invece che gli analisti indipendenti segnalano un deterioramento nei rapporti tra i due Paesi governati da partiti comunisti.

I motivi per i quali Pechino oggi non è disposta a sacrificarsi per la Corea come nel secolo scorso sono comprensibili. Il presidente cinese, Xi Jinping, non ha mai incontrato il suo omologo nordcoreano, nei confronti del quale dopo ogni esperimento atomico (cinque finora) o test missilistico è cresciuta una malcelata irritazione. Le comunicazioni proseguono a livello dei rispettivi partiti ed eserciti, ma la leadership politica di Pechino non ne può più delle intemperanze di Kim.

I RISVOLTI
Negli ultimi giorni - in ottemperanza a quanto prescritto dall'ultimo pacchetto di sanzioni Onu - la Cina ha sospeso l'acquisto del carbone nordcoreano, una delle poche esportazioni che permette di andare avanti a una popolazione fortemente provata da anni di embargo internazionale. Ieri Airchina - l'unica compagnia aerea a operare un regolare servizio tra Pechino e Pyongyang - ha cancellato i voli.


Per Pechino lo scenario da incubo è quello di una guerra regionale, che le imporrebbe di farsi carico di masse di profughi nordcoreani e rischierebbe di aprire la strada (in caso di collasso del regime di Pyongyang) a un'unificazione della Corea sotto egida statunitense. Al contrario uno scontro limitato o un raid americano senza risposta di Pyongyang lascerebbe la situazione sostanzialmente invariata, con un dittatore formalmente amico al comando nello Stato confinante, e i grattacapi internazionali per la questione coreana tutti ancora da risolvere.

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Il Messaggero