Chat inviolabile, la Cassazione: «Non si può licenziare chi insulta il capo»

Chat inviolabile, la Cassazione: «Non si può licenziare chi insulta il capo»
Non è certo un invito al turpiloquio nei confronti del “capo”, ma la sentenza della Cassazione toglie molti pensieri a chi - a torto o a ragione - si lascia...

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Non è certo un invito al turpiloquio nei confronti del “capo”, ma la sentenza della Cassazione toglie molti pensieri a chi - a torto o a ragione - si lascia andare sulle chat a pesanti commenti sul proprio superiore. Non si può licenziare nessuno perché su una chat, o su una mailing list, ha scritto parole anche molto pesanti sul suo capo, compreso il caso in cui gli epiteti siano rivolti all'amministratore delegato dell'azienda per cui lavora chi ha espresso l'opinione un po' tranchant servendosi dei social.


Lo ha stabilito la Cassazione dando tutela alla segretezza degli scambi di opinioni tra followers di una stessa catena di contatti a circuito chiuso che è «inviolabile». Dunque nel caso in cui in qualche modo, ad esempio tramite la manina di una spia, pervenga al datore di lavoro copia di una schermata di insulti a lui diretti, è da «escludere» ogni forma di «utilizzabilità» del contenuto di tale conversazione, afferma la Suprema Corte.

Perché - spiegano gli ermellini - «i messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti a un determinato gruppo, come appunto le chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile».

Così ha conservato il suo posto, di guardia giurata a Taranto, un dipendente della Cosmopol che nel gruppo Facebook del sindacato di base Flaica Uniti Cub aveva definito «faccia di m...» e «co...» l'amministratore delegato della società.

Tutto era avvenuto in una conversazione svoltasi nel settembre 2014 tra iscritti al sindacato nella quale si parlava dei metodi «schiavisti» usati dalla società di security e dell'esortazione rivolta dall'ad a una dipendente affinché cambiasse sindacato perché Flaica, secondo il top manager, «voleva la morte dell'azienda». Da qui le parole contro l'ad.

In primo grado, il Tribunale di Taranto aveva confermato il licenziamento di Gianpiero A. ma poi la Corte di Appello di Lecce, nel 2016, lo aveva dichiarato illegittimo ordinando la reintegra della guardia giurata oltre al pagamento di dodici mensilità di stipendio, e ai contributi.


Contro il verdetto la Cosmopol ha fatto infruttuosamente ricorso in Cassazione. «L'esigenza di tutela della segretezza delle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservate agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private», conclude la Cassazione escludendo l'intento denigratorio per quelli che sono «uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato»
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Il Messaggero