La decisione della Germania di concedere il diritto d’asilo ai profughi dalla Siria è certamente una buona notizia. Soprattutto per l'Italia e la Grecia, le due nazioni da...
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Apprezzabile sul piano umanitario e insindacabile dal punto di vista formale (una clausola della convenzione di Dublino consente ai singoli contraenti di sospenderne l'applicazione in situazioni di particolare emergenza), quella assunta dal governo della Cancelliera Merkel è stata infatti una decisione politicamente unilaterale, presa senza confrontarsi con nessuno preventivamente. Certo, nei riguardi degli altri membri dell'Unione europea ci si può giustificare sostenendo (come il governo italiano peraltro afferma da tempo) che gli accordi di Dublino, nelle loro diverse redazioni, hanno fatto il loro tempo, hanno dimostrato di essere troppo macchinosi e debbono dunque essere rivisti. O, meglio ancora, adducendo quanto sta accadendo nella zona dei Balcani, con le migliaia di profughi (soprattutto siriani, afgani, somali ed eritrei) che da settimane cercano con ogni mezzo di superare le frontiere della Serbia e dell'Ungheria, quelle della Macedonia e della Bulgaria, con l'obiettivo di raggiungere l'Europa centrale. Profughi che - per un residuo di spirito cristiano e pensando a quali tragedie si sono già consumate nel corso del Novecento in quella parte del continente a danno degli stessi popoli europei e per colpa esclusiva di questi ultimi - non si può certo pensare di fermare schierando l'esercito in armi o alzando barriere di filo spinato, come pensano di fare il governo di Budapest e quello bulgaro.
Poteva la Germania - che dell'Unione evidentemente aspira ad essere la guida non solo politico-economica, ma anche morale e civile - restare sorda o inerte dinnanzi a questo brutto spettacolo? Resta tuttavia il problema di un'Europa che, nonostante le pubbliche dichiarazioni dei suoi massimi rappresentanti e gli impegni assunti da capi di Stato e di governo nel corso di summit e incontri ufficiali, non riesce a sviluppare una linea comune d'azione rispetto a quello che non è solo un dramma umanitario momentaneo, ma un fenomeno di portata storica, che come tale richiederebbe risposte all'altezza e di valore strategico. Nessuno può infatti illudersi circa la possibilità che i conflitti armati in corso nel Nord Africa e nel Vicino Medio Oriente - alcuni dei quali alimentati dall'inerzia e dall'avventurismo di alcuni Paesi europei o dal loro andare in ordine sparso anche sui grandi temi della politica estera e militare (tipico il caso della crisi libica) - possano trovare una soluzione politico-diplomatica nel giro di pochi mesi. In questa zona del mondo la violenza delle armi ha assunto purtroppo un carattere strutturale e non immediatamente reversibile.
Bisogna perciò attrezzarsi per affrontare, sul medio e lungo periodo, le conseguenze, che già abbiamo sotto gli occhi, di questa particolare situazione storica: persecuzioni sistematiche contro minoranze religiose ed etniche, vandalismi e distruzioni di beni storici operati come forma di propaganda ideologica, terrorismo endemico (compreso quello esportato verso l'Europa con l'obiettivo di destabilizzarne gli assetti democratici), nascite di Stati fantoccio e creazioni di "terre di nessuno" gestite dalla criminalità organizzata e infine - inevitabilmente - esodi di massa, fughe dai territori politicamente instabili o in guerra e spostamenti di popolazione attraverso confini divenuti sempre più porosi.
Il Messaggero