L'ammiraglio Lertora: «Blocco navale segnale comprensibile Le navi tornino nelle città di partenza»

L'ammiraglio Lertora: «Blocco navale segnale comprensibile Le navi tornino nelle città di partenza»
ROMA Un colpo per confondere il nemico. Che può avere un grande effetto simbolico, ma difficilmente basterà a risolvere l'emergenza. L'ammiraglio Giuseppe...

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ROMA Un colpo per confondere il nemico. Che può avere un grande effetto simbolico, ma difficilmente basterà a risolvere l'emergenza. L'ammiraglio Giuseppe Lertora, ex capo della squadra navale della Marina militare, di esperienza in mare anche nella gestione delle crisi umanitarie ne ha fatta tanta. Ha guidato i suoi uomini sia nel Mediterraneo sia ai tempi dell'esodo dall'Albania. Ma una situazione come quella che l'Italia vive ora non l'ha mai vista.


Ammiraglio, fa bene l'Italia ad annunciare che se l'Europa non ci aiuta deciderà di chiudere i porti?
«Capisco perfettamente che il nostro paese senta l'esigenza di dare un segnale forte. Impedire ad una nave di entrare nei nostri porti è una scelta molto pesante sul piano politico e delle relazioni internazionali, che va soppesata con cura. Può avere la forza del gesto simbolico, del grave incidente diplomatico che segue una situazione da tempo insostenibile. Certo, è difficile tenere ferme le navi per molto tempo. Nelle tecniche di battaglia in mare noi usiamo alcuni colpi per confondere l'avversario, chiamati chaff and flare: possono rallentare l'avanzata del nemico, ma è difficile che bastino a sconfiggerlo».

Secondo lei è vero che le navi delle ong, gestendo numeri crescenti di salvataggi, hanno aggravato il caos in mare?
«Mi pare che il problema sia innegabile, anche al di là delle capacità e della buona volontà di alcune organizzazioni umanitarie. Per di più c'è un grande punto sul quale è necessario intervenire: chi sale su una nave entra di fatto nel territorio del paese di cui quella nave batte bandiera. Dunque, dovrebbe essere poi quella nazione ad occuparsi del destino dei naufraghi raccolti. Qui, invece, accade che persino le navi umanitarie che battono bandiera maltese o spagnola non tentino neppure di tornare nel porto di provenienza, ma si dirigano direttamente verso l'Italia. Una mancanza di cooperazione da altre nazioni europee che è difficile tollerare a lungo. In ogni caso, ritengo che si debba lavorare, anche in chiave europea, a soluzioni più di ampio respiro».

Secondo lei qual è la chiave per risolvere l'emergenza?
«Quando anni fa, e con numeri molto minori, l'Italia si trovò a fronteggiare il grande esodo proveniente dall'Albania, ci fu solo una cosa che davvero ci permise di riportare la situazione alla normalità e sotto controllo: riuscimmo a sistemare un comando della Marina in Albania. Da lì, con la cooperazione delle motovedette maltesi e della polizia che saliva direttamente a bordo delle navi di migranti, riuscimmo a risolvere il problema perché controllavamo le partenze, non gli arrivi. La normalizzazione della Libia e un successivo accordo è l'unica strada possibile».

Più di dieci anni fa l'Italia bloccò una nave umanitaria, la Cap Anamour.

«Fu un grosso caso di crisi diplomatica internazionale. Fu fatto, ma per alcune settimane. La vera difficoltà è tenere il blocco per un tempo prolungato. Più fattibili, sul medio periodo, sono le forme di dissuasione, come il non fornire banchine o assistenza a terra per lo sbarco. Capisco, in ogni caso, che i numeri di questa emergenza spingano a cercare segnali forti». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero