Vertice Trump-Kim: in Corea del nord la squadra americana che deve preparare il summit

Vertice Trump-Kim: in Corea del nord la squadra americana che deve preparare il summit
NEW YORK – Adesso sono tutti molto cauti. Ogni volta che si cita il summit del 12 giugno fra Donald Trump e Kim Jong-un, anche i più sinceri ammiratori del presidente...

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NEW YORK – Adesso sono tutti molto cauti. Ogni volta che si cita il summit del 12 giugno fra Donald Trump e Kim Jong-un, anche i più sinceri ammiratori del presidente americano sentono la necessità di aggiungere «se davvero avrà luogo». Dopo le altalene delle ultime due settimane, con la brusca cancellazione dell’appuntamento e il suo non meno repentino ripescaggio, nessuno è più pronto ad accettare ottimisticamente le continue rassicurazioni di Trump sul fatto che i lavori fra la squadra Usa e quella nord-coreana stanno procedendo «molto velocemente». La squadra americana dopotutto è arrivata a Pyongyang solo sabato sera, e per quanto sia guidata da un esperto come Sung Kim, ex ambasciatore in Corea del sud e attuale ambasciatore nelle Filippine, la mole di lavoro da espletare per un summit dalla portata storica come dovrebbe essere quello di Singapore è assolutamente titanica. E difatti c‘è chi sostiene che il summit si terrà, ma non partorirà nulla di concreto, sarà una “photo opportunity”, un primo passo, e il vero lavoro comincerà dopo. Cioè si procederà all’inverso rispetto a simili summit  del passato.


Lo si intuisce anche dalle parole del presidente sud-coreano Moon Jae-in, che dopo la cancellazione della bilaterale da parte di Trump, ne ha tenuto uno lui a tempo record con Kim Jong-un, durante il quale le due Coree si sono impegnate a continuare i negoziati, ad aprire una “linea rossa “ per le emergenze, e possibilmente anche a trasformare l’armistizio del 1953 in una pace definitiva. Nell’incontro nord-sud di venerdì, si è già stabilito di rivedersi il primo giugno, e si è anche messa sul tavolo per la prima volta la possibilità di un accordo di non aggressione, che potrebbe liberare la Corea del sud dalla dipendenza militare dagli Stati Uniti. Tutto ciò è settimane, se non mesi, o addirittura anni avanti rispetto allo stato dei colloqui fra Washington e Pyongyang.

Il nucleo della discordia fra americani e nord-coreani rimane unico, è vero, ma di peso gigantesco: Trump sembra di nuovo credere fiduciosamente che Kim sia pronto a una totale denuclearizzazione, ma lo stesso Moon, che ne ha parlato con Kim, ha riferito ieri mattina che «le due parti potrebbero avere aspettative diverse». Se Trump sembra credere che sia possibile ottenere di spazzare via velocemente trent’anni di ricerche e conquiste nucleari da parte di Pyongyang, il dittatore nord coreano si dice invece vagamente disposto a rinunciarvi ma solo in presenza di “irreversibili” promesse sulla sicurezza del suo Paese, che paiono allo stesso Moon «un lavoro arduo, un processo lungo». Ieri sera, un segnale di quanto il processo possa essere accidentato è venuto da un commento sul Rodong Sinmun, organo del Comitato Centrale de Partito dei Lavoratori, che ha criticato l’idea che lo Stato nordcoreano debba soddisfare “i requisiti americani” per ottenere in cambio aiuti su larga scala: «Non possiamo che rendere chiaro il fatto che sono stati gli Stati Uniti che per primi hanno chiesto i colloqui», commenta il giornale secondo il quale, per quanto riguarda gli aiuti economici, Pyongyang non ha mai coltivato aspettative di averli».


Da questi toni risentiti, non si può escludere dunque che tutto si risolva in un nulla di fatto. L’ex capo dei negoziati Usa-Corea nel 2005, durante la presidenza di George Bush, l’ambasciatore Cristopher Hill, lancia infatti un ammonimento: «Più cautela e meno annunci roboanti. Non dimentichiamo che il diavolo si nasconde nei dettagli e cerchiamo piuttosto di capire su cosa davvero ci troveremo a negoziare». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero