A rischio 6 miliardi di investimenti e 20 mila posti di lavoro nel settore

A rischio 6 miliardi di investimenti e 20 mila posti di lavoro nel settore
ROMA I numeri non sono ancora definitivi, ma la moratoria sulle trivelle rischia di costare caro. Anzi carissimo. Perché in ballo, legati alle concessioni minerarie, ci...

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ROMA I numeri non sono ancora definitivi, ma la moratoria sulle trivelle rischia di costare caro. Anzi carissimo. Perché in ballo, legati alle concessioni minerarie, ci sono circa 6 miliardi di investimenti in 12 anni. Soldi che rischiano di evaporare tra gli stop and go del governo. Dubbi e indecisioni che nascondono, come ormai più che evidente, lo scontro tra Lega e 5Stelle sulle infrastrutture. Ma non c'è solo il danno economico. I contratti siglati con le ditte che operano nel Mediterraneo, qualora non fossero rispettati, potrebbero far scattare penali milionarie. Dagli ultimi dati disponibili si parla di circa 470 milioni. Senza contare gli effetti sull'occupazione. I sindacati parlano di oltre 20 mila posti in bilico per il settore.




I DETTAGLI
Del resto l'attuale formulazione dell'emendamento, frutto di un compromesso politico, comporterà effetti negativi sul settore upstream, l'estrazione, in quanto determina di fatto il blocco delle attività di ricerca e del rilascio di nuove concessioni minerarie. Non solo. Il combinato disposto della moratoria delle attività upstream, nonché dell'aumento dei canoni può far venir meno, spiegano le aziende del comparto, la «redditività minima per molte delle attività in corso». Contrariamente alla finalità dichiarata dell'emendamento di accrescere le entrate con l'aumento del canone di concessione, la rinuncia ai cosidetti titoli minerari porterebbe non soltanto a una diminuzione dei canoni effettivamente percepiti, rispetto alla cifra teorica di 50 milioni di euro, ma anche minori royalties e imposte con conseguente riduzione di gettito per lo Stato. Si stimano, dicono gli esperti del settore, nei prossimi anni minori investimenti per oltre 400 milioni e una diminuzione delle entrate per le casse pubbliche (tra tasse, contributi e royalties) per circa 110 milioni per anno. Ma se si estendono i vincoli introdotti dall'emendamento anche al caso di mancata proroga delle concessioni in essere nelle aree considerate non idonee, verrebbero a mancare investimenti e spese di esercizio per circa 6 miliardi e si registrerebbe una diminuzione delle entrate per le casse dello Stato per oltre 300 milioni per anno. Forte, ovviamente, anche l'impatto sull'occupazione.

Soltanto in Emilia-Romagna, tanto per fare un esempio, lavorano più di dieci mila addetti riconducibili all'industria upstream e sono presenti quasi mille aziende che generano un indotto che supera i centomila lavoratori. Ma non bisogna dimenticare poi l'impatto negativo sulla bilancia commerciale a seguito della riduzione della produzione nazionale di idrocarburi a favore, ovviamente, delle importazioni dall'estero. A tal proposito basti ricordare che nel 2018 la fattura energetica per l'Italia è stata di circa 40 miliardi di euro. Nello stesso anno la produzione domestica ha contribuito al miglioramento della bilancia commerciale con un risparmio complessivo sulla bolletta energetica di circa 3,1 miliardi. Risparmi che andrebbero in gran parte perduti con la nuova regolamentazione.

LA BEFFA
La diminuzione della produzione nazionale di idrocarburi incide anche sulla sicurezza degli approvvigionamenti, esponendo ulteriormente l'Italia alla dipendenza dall'estero. Per soddisfare il proprio fabbisogno domestico, infatti, il nostro Paese importa una quota di energia pari a circa il 75% (per gli idrocarburi si raggiunge il 90%), una dipendenza energetica molto superiore alla media dei Paesi europei, che si attesta intorno al 54%.


Oltre alle conseguenze economiche e sociali, aggiungono i sindacati di categoria, la sostituzione della produzione domestica con quella di importazione provocherebbe un impatto a livello ambientale: per importare il gas dall'estero è necessario bruciarne una percentuale importante per poterlo comprimere e trasportare, con il conseguente aumento delle emissioni del 25% circa rispetto al gas prodotto in Italia. Oltre il danno, la beffa. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero