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Crisi governo I Fab Four. Ma magari fossero i Beatles. Sono i favolosi (si fa per dire) quattro protagonisti della crisi in cui hanno da perdere o da guadagnare ma qualcuno mira pure al pareggio. Si tratta di Conte, Renzi, Zingaretti e Di Maio. E tra vertici, verifiche, veti, veleni e veline, quante V per una crisi soltanto. La più impensabile in tempi in cui l’attenzione del Palazzo non dovrebbe essere rivolta al proprio ombelico ma all’impegno contro la seconda ondata del virus che non se ne va e contro la terza che sta arrivando e accrescerà il carico di disastro economico e sociale, oltre che sanitario, che andrebbe fronteggiato a ranghi compatti e non tra baruffe partitiche e personalistiche. Ma questa è l’Italia 2021 e non resta che sperare che tutto si concluda presto e decentemente. I veri duellanti sono Conte e Renzi - solo uno di noi due resterà in piedi, ecco il guanto di sfida - ma mai uno spaghetti western s’è rivelato poco divertente come questo in cui lo scalpo è l’Italia.
Crisi di governo, Conte a caccia di 14 senatori "responsabili": ecco chi sono
Giuseppe Conte
«Il più amato sono io». E deposita il simbolo
C’è chi lo chiama Napoleone. E forse a lui non dispiace. C’è chi lo crede ancora un avventizio della politica ma questo è un errore da matita blu. Il corso imprevedibile della crisi mostra un solo punto saldo: la convinzione di Conte che «il più amato sono Io». E dopo il Conte 1 e il Conte bis o BisConte non può che esserci a suo avviso il Conte Ter, nuova incarnazione del CamaleConte, o il VisConte (un Conte rinforzato, e «vis, roboris» in latino significa appunto forza) e quando dice «io comunque un lavoro ce l’ho e se mi cacciano torno volentieri a fare il professore» va ascoltato “Giuseppi”. Ma guai a credere a quel «volentieri». Conte che fu Avvocato del Popolo in questo frangente vorrebbe chiudere l’intero Palazzo nella sua pochette, lasciando fuori soltanto Renzi. Con il quale non si è mai preso: uno si sente un cavallo di razza toscana alla Fanfani, l’altro pensa di fare le veci di Aldo Moro e infatti lo cita contro l’avversario: «Gli ultimatum fanno parte della cultura di altri e non del mio bagaglio». Ha scelto la modalità di quello che ha cose ben più importanti da fare che occuparsi dei capricci dei partiti. Salvo poi - ma chissà se è vero - contattare personalmente singoli possibili “responsabili”, per ottenere un aiutino in Senato e pensare di farsi un partito tutto suo di cui avrebbe, ma da Palazzo Chigi smentiscono, depositato il simbolo presso un notaio romano e anche scelto il nome: Insieme. Sugli altari o nella polvere?
Matteo Renzi
Il ritorno del Bomba «Col 2% do le carte»
Rieccolo, e sempre nella solita modalità: quella del Bomba.
Nicola Zingaretti
Non voleva i rosso-gialli e tocca a lui difenderli
Non è il teorema di Euclide e neppure quello di Pitagora. Chiamasi invece il Paradosso di Nicola. Zingaretti è costretto a difendere un governo che non voleva e che poi lo ha visto scettico e disarmato davanti all’indolenza temporeggiatrice di Conte e alle mancate risposte (condite dal «certo Nicola, ci stiamo lavorando...») su tutti i temi che il segretario Pd in questi mesi provava a incalzare il premier cortese ma irremovibile nel suo infischiarsene dei partiti che sorreggono il suo potere. Di fatto, c’era proprio Zingaretti, insieme a Delrio e a Dario Stefano (in sostituzione del capogruppo dei senatori dem Marcucci assente per motivi personali) quando alla nascita del Conte bis uscirono dal loro turno di consultazione e dal terzetto proruppe venne questa battuta riguardo al rifiuto del premier di accettare due vicepremier con casacca di partito: «Ma Conte si crede Napoleone?». Lo chiamano il Saponetta a Zingaretti e lui sperava di scivolare positivamente su questa crisi, senza strappi e senza intoppi, come tante volte gli è successo nella sua fortunata carriera. Forse ci riesce un’altra volta. Il Conte Ter, se si farà, sarà quello del ridimensionamento di “Giuseppi” Napoleone, ossia ciò che Zinga ha sempre educatamente voluto.
Luigi Di Maio
Il più impaurito di tutti non fa che dire: «Follia»
È quello che rischia più di tutti, Di Maio, dal collasso del governo Conte. Teme di perdere la Farnesina, di non tenere più i 5 stelle pronti a esplodere se salta il premier che pensano (ma anche no) essere il loro, di non continuare ad essere la guida non ufficiale ma effettiva della maionese grillina impazzita e comunque Luigi ha il rango di un esponente politico di una forza di oltre il 30 per cento pronta a dimezzarsi nel caso si vada a votare. Mandare a monte tutto ciò? Non sia mai. Ecco perché Luigi, che non ha mai davvero digerito la premiership del professore che lui ha inventato come politico senza avere in cambio troppa riconoscenza, non fa che ripetere da grande neo-saggio della più tradizionale neo-vetero politica di Palazzo: «E’ da pazzi voler abbattere questo governo», «Folle perdere le giornate parlando di crisi di governo. La crisi che dobbiamo affrontare è quella economica». E quella da evitare - perfino piegandosi a convivere in un eventuale Conte Ter con la detestatissima Maria Elena Boschi? Sì, probabilmente lo spirito di sopravvivenza stellata anche a questo arriverà - è la crisi di un sogno diventato governabilità e guai a farselo scippare. Dunque si sta agitando assai Di Maio, ma senza darlo tanto a vedere. Chiamasi dissimulazione, e Luigi da ragazzo sveglio sembra averne imparata un po’.
Crisi di governo, l’attesa dei giornalisti fuori da Palazzo Chigi durante il CdM
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