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La giornata di oggi sarà dedicata alle vittime del terrorismo. La data è significativa, perché il 9 maggio del 1978 fu ucciso Aldo Moro. Rievocando il suo calvario, uniamo nel ricordo le centinaia di morti che le bande rosse e nere seminarono per il Paese in quegli anni di piombo. Ma quella data è importante anche perché, pur rappresentando il momento della più alta efficienza operativa delle Br, ne iniziò la crisi, la disgregazione, e la fine.
IL BERSAGLIO
Aldo Moro era stato rapito il 16 marzo in via Fani, mentre si recava in Parlamento per la presentazione del governo di unità nazionale, l'attuazione del compromesso storico tra democristiani e comunisti. Fu questa opera di composizione a farne il bersaglio elettivo, perché i brigatisti combattevano principalmente quel riformismo che allontanava la rivoluzione proletaria. L'agguato fu concepito e condotto con una tecnica che sbalordì il mondo. Vi parteciparono una dozzina di militanti provenienti dalle varie colonne che in pochi attimi annientarono la scorta, cinque uomini della Ps e dei carabinieri, con precisione chirurgica. Lo statista, spaventato ma incolume, fu trasferito in un furgoncino e da lì in una prigione del popolo.
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La reazione del governo fu quella di un pugile rintronato. Non sapendo dove guardare e dove intervenire, menò fendenti alla cieca, valendosi di investigatori impreparati e affidandosi persino a veggenti, rabdomanti e ciarlatani. Fu organizzata una seduta spiritica, cui partecipò Romano Prodi, durante la quale emerse, si disse, il nome di Gradoli, un paesino del viterbese che risultò insignificante. Furono anche fatte perquisizioni in via Gradoli a Roma. In una di queste, dove la polizia non entrò perché nessuno rispose, c'era uno dei covi più importanti della colonna locale. Nel frattempo iniziarono ad arrivare varie lettere di Moro, indirizzate un po' a tutti: colleghi, giornalisti, famigliari, sacerdoti, amici. Più o meno apertamente, il sequestrato chiedeva di trattare con i terroristi, che avevano chiesto la scarcerazione di una serie di compagni condannati per reati gravissimi. All'interno della coalizione si aprì un doloroso conflitto: i socialisti erano per la trattativa, i comunisti contrari, i democristiani esitanti e divisi.
LA SOLUZIONE
Prevalse, com'era ovvio e doveroso, la linea dura. Se lo Stato avesse ceduto, le Br avrebbero ottenuto un riconoscimento politico e un trionfo mediatico. Per di più, qualsiasi delinquente avrebbe potuto sequestrare un passante e chiedere la liberazione dei suoi complici. Negarla, avrebbe significato attribuire alla vita di Moro un valore più alto di quella altrui; allora le carceri si sarebbero svuotate e l'intero ordinamento si sarebbe sfasciato. Così, dopo vari tentativi di soluzioni diverse, il 9 maggio le Br caricarono Moro in una R4 rossa, lo crivellarono di colpi, e deposero la vettura in via Caetani, tra le sedi del Pci e della Democrazia Cristiana. Un avvertimento tragico e beffardo, che molti interpretarono come l'arroganza di un'organizzazione misteriosa, capillare e invincibile. In realtà, fu l'inizio della sua fine.
Rifiutando la trattativa, il Paese aveva infatti raccolto la sfida, perché aveva dimostrato di anteporre la propria sicurezza alla vita un suo autorevole rappresentante. Le Br, dal canto loro, capirono che si erano cacciate in un vicolo cieco. La prova di forza si fece allora più aspra, e le vittime aumentarono. I magistrati - in rapporto al loro numero esiguo - furono quelli che pagarono il tributo più alto. Questo conferì loro un prestigio e un'autorità di cui non sempre successivamente fecero buon uso. Tuttavia furono loro a suggerire a un governo annichilito nel morale e incerto nel procedere la via da seguire: una legislazione che favorisse la dissociazione, concedendo in cambio ampi sconti di pena. E l'idea funzionò.
GLI INTERLOCUTORI
La furiosa reazione delle Br con la catena di attentati che segui all'esecuzione di Moro mascherava in realtà la loro profonda crisi strategica, perché non avevano più alcun interlocutore.
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LA PROCEDURA
Gli assassini di Moro furono individuati, catturati, processati e condannati. Non si introdussero leggi speciali: fu seguita la procedura ordinaria, con le massime garanzie che hanno onorato quella nostra pagina giudiziaria. Dai numerosi dibattimenti non emersero novità particolari: le Br avevano agito in modo autonomo, senza etero direzioni o grandi vecchi dietro le quinte. Questo sembrava troppo semplice agli opinionisti invaghiti della dietrologia, e quindi fiorirono le ipotesi più originali sui presunti mandanti delle stragi. Uno di questi sarebbe stato nientemeno che Igor Markevitch, un noto direttore d'orchestra che tutti amiamo per l'esecuzione commovente della Creazione di Haydn. In realtà, la forsennata ricerca di una responsabilità alternativa mascherava l'incapacità di riconoscere ai terroristi quelle caratteristiche che allo Stato erano mancate: la lucidità dei propositi, la cura nella progettazione, e l'abilità esecutiva. La spettacolare impresa di via Fani dimostrava che dietro a Moretti e compagni non era necessario che ci fosse qualcuno. Bastavano loro, perché erano infinitamente più bravi nell'attaccare di quanto fossimo noi nel difenderci.
IL PROLETARIATO
In conclusione, il brigatismo fu il frutto di un'ideologia rivoluzionaria, sorta sul mito della Resistenza tradita e alimentata da una visone apocalittica del cosiddetto sfruttamento del proletariato. Fu gestito da giovani disposti a uccidere e a morire per una causa in cui credevano con dedizione fanatica. Fu un errore considerarlo prima un fascismo mascherato, e poi un prodotto di belve umane, definizione enfatica e riduttiva che non considera la complessità dell'adesione acritica a un vangelo rivoluzionario. Come tutte le rivoluzioni, anche questa alla fine fallì, dimostrando la saggia definizione di Rivarol, che sono le prefazioni sanguinarie di libri mai scritti.
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Il Messaggero