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Non amava le semplificazioni Ciriaco De Mita e questo, in un Paese che vive di scorciatoie lessicali e politiche, lo rendeva una figura singolare e spesso inarrivabile per la sottigliezza (non astrattezza) dei suoi ragionamenti. Aveva 94. Quasi tutti vissuti da protagonista. Della Dc, che gli di madre e figlia, diceva: «È un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c'è l'intervento equilibratore del governo».
La definizione è riportata in Piazza del Gesù, il diario compilato dal suo portavoce, Giuseppe Sangiorgi, che è un documento prezioso per capire lo statista democristiano e inquadrarlo nel contesto politico in cui ha lungamente vissuto sapendolo accompagnare rinnovare attraverso la storia.
Chi era De Mita
De Mita dal ‘900 è passato al secolo successivo, senza mai trasgredire alla sua impostazione di fondo: «Quando una cosa complessa ti appare semplice, vuol dire che non l’hai capita». E siamo al demitismo puro. Forse per questo Gianni Agnelli definì l’ex premier e leader dc «un intellettuale della Magna Grecia». Lui, che comunque si sarebbe riappacificato con l’Avvocato in occasione di una partita della Juve contro l’Avellino, rispose per le rime, dicendo che Agnelli s’intendeva di mercanti, e non di cultura. Per intellettuale della Magna Grecia, si voleva intendere uno che pensa ma non agisce. Il che non corrisponde in verità - e al netto dei suoi meriti e demeriti - alla figura di De Mita. Il quale è sempre stato convinto, invece, che i sistemi politici si reggano sul pensiero e che l’azione non si esaurisca nella sua realizzazione.
Il pensiero
La realtà politica, a uno come lui, negli ultimi anni non poteva certo apparire governata dal pensiero. Basti pensare alle sue critiche su come ormai si formano le liste elettorali. «Si adotta una logica feudale», ragionava Ciriaco: «Nella quale la fedeltà al capo è il criterio dominante.
Lo sguardo in avanti
Da allora, di anni ne sono passati tanti altri. Ancora di più ne sono trascorsi dal ‘68. Ma guardando indietro, che per De Mita era un modo per guardare anche avanti, lui negli ultimi tempi amava pure riflettere su che cosa ha significato la stagione della contestazione. Pensava che il diritto va garantito ma il diritto garantito presuppone anche la responsabilità. Ossia che il diritto allo studio va bene, ma dev’esserci anche il diritto alla bocciatura. Moderno in questo, acuto come sempre, perché ragionate sui limiti sel cosiddetto dirittismo oggi va molto di moda e lui - che solo chi non lo conosceva poteva considerarlo un dinosauro - ha saputo anticipare questa corrente di pensiero.
La Dc e gli altri
Politicamente era arciconvinto di questo: che un partito responsabile per eccellenza, insieme alla Dc, è stato, nei momenti migliori, il Pci. E Ciriaco, che è stato il primo ad aprire la riflessione sull’evoluzione dei comunisti, nel congresso del ‘69 in cui Berlinguer divenne vicesegretario, fu colpito sentendo che citava Machiavelli, a proposito dello Stato, mentre Terracini ancora si attardava su Lenin. A quel tempo De Mita era sottosegretario, s’occupava della riforma delle regioni e volle incontrare Berlinguer. Si videro in una bettola di Roma, e Aniello Coppola, famoso giornalista comunista napoletano, alla fine disse a Ciriaco: «Lo hai riempito di complimenti». E del resto tutto si può dire a De Mita, tranne che la Dc sia stato un partito reazionario. Questa immagine erronea lui la attribuisce a certi intellettuali di sinistra. Ma non c’è dubbio che, specie nel Mezzogiorno, sia esistito un elettorato reazionario che votava Dc. «Oggi penso che quel tipo di elettorato guardi a Berlusconi. Ma come contestazione, non come soluzione. Se vogliamo semplificare, si può dire che la crisi della stagione renziana abbia fatto riemergere ciò che c’era prima». Così disse mentre veniva festeggiato dagli amici nella sua casa al Tritone quando ha compiuto 90 anni.
I rapporti con gli altri
A De Mita interessa quella politica che si sforza di capire la realtà e di guidarla. In giro di questa politica non ne vedeva più almeno da un decennio. E per ritrovarne le tracce, doveva risalire nei suoi ragionamenti, per esempio, ad Amendola e a Ingrao. «All’inizio non ci salutavamo con Amendola. Io volevo, ma lui no, perché ero amico di Ingrao. Quando Leone venne eletto presidente della Repubblica, tutto il gruppo parlamentare comunista non si alzò ad applaudire. A parte Amendola. Apprezzai molto quel suo comportamento. E uscendo dall’aula, Amendola per la prima volta mi rivolse la parola. Dicendo: prima eravamo in due a gestire le operazioni parlamentari del nostro partito, Togliatti e io, ma ora Togliatti è morto. Ossia mi stava dicendo: dovete parlare con me». E questo è un altro dei tanti ricordi che Ciriaco disseminava nelle telefonate che amici, ammiratori, giornalisti gli facevano in questi anni e lui gentilmente si metteva a parlare, a spiegare, a ironizzare amaramente sul livello calante della politica ma senza mai demonizzarla. Anzi: ha creduto fino alla fine, ma sempre meno, nella possibilità di rendere i partiti di nuovo forze creatrici e reali: «I talk show? Che pena ….».
Ciriaco e la democrazia
Il tema vero che sta al centro della riflessioni dell’uomo politico arrivato a 94 anni e che adesso si è fermato a questa soglia veneranda, è quello del processo democratico. «Io credo che, nella forma in cui l’abbiamo vista finora, la democrazia rappresentativa sia arrivata alla fine. Io ho sempre pensato che la democrazia fosse un continuo processo di sviluppo e non una stagione. E invece ho dovuto ricredermi. La democrazia è un fatto e noi non siamo riusciti a governarlo». Così diceva amaramente ma ha lottato fino alla fine, con una passione rara, perché i fatti smentissero quel fatto.
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