Silvio Muccino, il ritorno al cinema: «Mi sentivo in gabbia, la vera sfida inizia ora»

Silvio Muccino, il ritorno al cinema: «Mi sentivo in gabbia, la vera sfida inizia ora»»
Silvio Muccino, il ritorno. «Era un progetto magnifico a cui non potevo dire di no»: così l'attore e regista romano, 39 anni, spiega la sua partecipazione a...

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Silvio Muccino, il ritorno. «Era un progetto magnifico a cui non potevo dire di no»: così l'attore e regista romano, 39 anni, spiega la sua partecipazione a Security, il film diretto da Peter Chelsom, ispirato al romanzo omonimo di Stephen Amidon (Mondadori), in programma su Sky Cinema e Now il 7 giugno. Sei anni fa, all'apice del successo (L'ultimo bacio, Ricordati di me, Manuale d'amore, Il mio miglior nemico) Sivio decise di lasciare il cinema. Per poi finire nuovamente sotto i riflettori a causa dell'aspro dissidio con il fratello Gabriele, oggi superato.


Nel frattempo ha scritto romanzi, riparato mobili («il mio hobby») in Umbria, pensato a nuovi progetti e girato nel 2017 The Place di Paolo Genovese. Ora Security, interpretato anche da Marco D'Amore, Maya Sansa, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bilello ed efficacemente illuminato da Mauro Fiore (Oscar per la fotografia di Avatar), lo restituisce totalmente al suo mestiere: Muccino è anche co-sceneggiatore di questo thriller serratissimo, ambientato d'inverno a Forte dei Marmi dove la violenza subita da una ragazza sotto gli occhi delle telecamere di sicurezza fa emergere segreti e bassezze di un'intera comunità. Silvio, più affascinante e indecifrabile che mai, fa un professore che ha una relazione clandestina con una sua allieva.

 


Perché non poteva dire di no a questo personaggio?
«Perché rappresentava una sfida esaltante: all'opposto del prof de L'attimo fuggente, è narcisista ma debole, campione di ambiguità. Insomma, un ruolo del tutto nuovo per me».


Perché negli ultimi anni è rimasto lontano dal cinema?
«Non ho provato l'astinenza da set. Ho la fortuna di potermi esprimere non solo come attore ma anche come regista, sceneggiatore, scrittore. E posso permettermi il lusso di aspettare il progetto giusto, quello in cui credo veramente, prendendomi il meglio del mestiere».


La pressione del successo era diventata insopportabile?
«Sì, ed era doppia. Dal punto di vista umano perché, esploso a 16 anni, non avevo gli strumenti per gestire la notorietà. Professionalmente, invece, ero richiestissimo ma per fare sempre lo stesso ruolo di post-adolescente conflittuale. Una maschera, una gabbia. Mettermi da parte mi ha permesso di intraprendere un percorso di ricerca».


Per trovare cosa?
«La possibilità di crescere grazie al lavoro, interpretare ad esempio personaggi complessi come l'uomo che stavo diventando. E la scrittura è stata il mio salvavita».


C'era bisogno andare a vivere lontano da Roma?
«A 20-25 anni, ubriaco di vita, ho fatto le serate, la movida. Era un momento estremo, molto bello e l'ho vissuto inconsapevolmente. Oggi ho scelto di vivere lontano dal chiasso, più libero e indipendente. E mi godo questo momento, avvicinandomi ai 40. Per fare cinema il presenzialismo non è obbligatorio, i buoni progetti nascono anche a distanza».


Quali sono i suoi?
«Sto scrivendo due serie e vorrei portare sullo schermo il mio libro Quando eravamo eroi».


Come giudica il cinema italiano?
«Per anni ha giocato sul sicuro puntando sulla commedia, ma anche se il sistema oggi è un po' seduto i nuovi talenti sono emersi: Rovere, D'Innocenzo, Mainetti...».


L'impegno a cui tiene di più in questo momento?
«Dono il sangue, dopo l'emergenza Covid ce n'è un gran bisogno. Lancio un appello: fate altrettanto».


C'è qualcosa di cui si pente?


«Aver realizzato Le leggi del desiderio in maniera non del tutto onesta, vestendo panni non miei. Non Sono stato premiato dagli incassi, ma ho capito una cosa: posso avere mille difetti, ma non sono un furbetto».

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Il Messaggero