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La vertenza giudiziaria sulla proprietà del tesoro della Corona è solo agli inizi, ma promette di crescere quanto prima l'interesse per la questione dei gioielli che il Ministro della Real casa, Falcone Lucifero, per ordine di re Umberto II di Savoia - che il 13 giugno 1946 partiva per l'esilio a Cascais - depositò in Banca d'Italia, presso il Servizio Cassa centrale, perché fossero poi consegnati «a chi di diritto». Una formula risultata magica, ma paralizzante sulla quale, per quasi ottant'anni, si è esercitata la burocrazia senza giungere ad alcuna conclusione mentre la durata del deposito si incammina a battere ogni record temporale determinando un primato assoluto a livello mondiale. Prova migliore non si sarebbe potuta avere della potenza delle formule, che avrebbero fatto invidia alla Sibilla cumana, e delle riflessioni alla Don Ferrante manzoniano (il quale inseguiva un dilemma sulla peste, se sostanza o accidente, senza decidere alcunché fino a quando fu colto dal morbo e ne morì).
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GIOIELLI SENZA LUCE
La burocrazia, a tutt'oggi, pur non potendo smentire che, in base alla parte che è rimasta in vigore della XIII Disposizione transitoria della Costituzione, i gioielli e quant'altro contenuto nei plichi consegnati e verbalizzati sono stati avocati dallo Stato, tuttavia non è stata in grado di stabilire il ministero o i ministeri ai quali spetti l'amministrazione di tali beni e nel cui bilancio debbano essere iscritti.
In questo quadro, a dir poco singolare e paralizzante, sopravviene ora la decisione degli eredi di Casa Savoia i quali hanno chiamato lo Stato in giudizio rivendicando la proprietà dei gioielli perché, secondo loro, non sarebbero coperti dalla predetta Disposizione costituzionale in quanto si tratterebbe di beni strettamente personali, donde traggono anche la conseguenza che, in ogni caso, la Disposizione stessa sarebbe in contrasto con altre norme della Carta, a cominciare da quella sulla proprietà privata.
L'OCCASIONE DI DRAGHI
Si tratta, in effetti, di argomentazioni singolari a cominciare da quelle su di un asserito conflitto tra norme della Costituzione - esposte solo ora, mentre l'avocazione dei beni non ha distinto in base alla loro provenienza, ammesso, ma non concesso, che si possa parlare a ragione di beni privati e non della Corona, come agevolmente è, invece, sostenuto da chi ha fatto una ricostruzione storica della loro provenienza. Si sarebbe potuto cogliere l'occasione di Draghi Presidente del Consiglio, ricordando che, come si è detto, era stato lui, da governatore, a sollecitare l'intervento di Palazzo Chigi. Ma la promozione dell'iniziativa giudiziaria può legittimare, in attesa delle decisioni, un alt a una decisione amministrativa o comunque giustificare un tale stop che, magari, fosse voluto per altre ragioni. Siamo ancora alla frase di Churchill dell'indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma.
E' pensabile che ci si svegli una buona volta da questo torpore della non decisione? Ragioni di dignità nazionale lo imporrebbero. A maggior ragione per il carattere pubblico dei beni in questione, per la loro storia, per l'affermazione, che essi indirettamente rappresentano, della Repubblica.
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Il Messaggero