Giulia Cecchettin, Cristiana Capotondi: «Può succedere a tutte, c’è una cultura da cambiare: leggete i testi della musica trap»

L’attrice: «Spesso le donne sottovalutano i segnali d’allarme. C’è una cultura da cambiare: leggete i testi della musica trap»

Giulia Cecchettin, Cristiana Capotondi: «Può succedere a tutte, dobbiamo imparare a riconoscere i violenti»
Attrice e imprenditrice, la romana Cristiana Capotondi, 43 anni, si è avvicinata spesso, come interprete, a storie di violenze sulle donne: nel 2016 era la protagonista del...

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Attrice e imprenditrice, la romana Cristiana Capotondi, 43 anni, si è avvicinata spesso, come interprete, a storie di violenze sulle donne: nel 2016 era la protagonista del film Io ci sono, storia vera dell’avvocatessa sfigurata dall’acido Lucia Annibali, mentre nel 2020 era in Nome di donna di Marco Tullio Giordana, nel ruolo di una lavoratrice molestata sessualmente dal proprio datore di lavoro. «Tutte storie molto simili, ma con gradi diversi di gravità nell’epilogo».

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La storia di Giulia Cecchettin poteva essere evitata?
«Purtroppo quella di Giulia è una storia che si ripete. I femminicidi sono tragedie talmente simili le une alle altre, che a volte mi chiedo come sia possibile che le persone coinvolte non si accorgano di alcuni elementi riconoscibili, dei segnali. È come se fosse impossibile sottrarsi a un certo meccanismo. E a quell’epilogo».
Quali sono i segnali d’allarme?
«Il gesto violento è sempre un allarme. E non intendo solo la sopraffazione fisica, ma anche quella psicologica: tentare di isolare la donna, sminuirla, toccarla nella sua autostima. Non è solo lo schiaffo che deve metterci in allarme. La violenza psicologica è il classico sassolino in cima alla montagna che diventa una valanga. Il problema è che i primi segnali spesso sono sottostimati e sottovalutati. E poi diventa impossibile da arrestare».
Quello di Giulia e Filippo è un caso limite?
«Non direi. In quel caso si sono messe in moto delle dinamiche ossessive che, magari in forme diverse, possono capitare a ciascuno di noi. Penso alla rivendicazione, al classico “rinfaccio” di come sia finito il rapporto. E anche se non c’è quel grado di pericolosità, queste dinamiche rischiano di intaccare psicologicamente le persone. Nessuna relazione è scevra da difficoltà, ma bisogna capire la portata dei problemi mentre si manifestano i primi segnali. Purtroppo molte donne non capiscono. Oppure, purtroppo, non lo credono possibile». 
Come si può non comprendere la pericolosità di certi atteggiamenti?
«Il problema è che a un certo punto si finisce per accettare persino lo schiaffo, perché si è convinte di meritarselo. A me non piace chi racconta le donne sempre e solo come vittime: le donne possiedono anche una forte aggressività, e intendo il termine in senso positivo. La forza, la determinazione, la capacità di andarsi a prendere ciò che vogliono dalla vita. Le donne sono perfettamente in grado di fronteggiare la primissima aggressività dell’uomo. Ma non devono cadere nella trappola dell’accettazione. La mostruosità di queste storie è nella violenza del maschio, certamente. Ma la tragedia è anche nel male che le donne fanno a se stesse quando accettano determinati comportamenti del compagno».
Le leggi bastano a risolvere il problema?
«Evidentemente c’è un problema di comunicazione sul femminicidio. Bisogna che sia chiaro che non si tratta di storie di persone “speciali”: sono tragedie che capitano a tutti i livelli sociali, che non appartengono a una determinata estrazione sociale. Possono succedere anche a noi. Il tema è atavico e affonda nella natura dei rapporti tra uomini e donne».
La scuola può fare qualcosa?


«Sì, certo. Serve un percorso di educazione sentimentale, ma non solo. Bisogna lavorare moltissimo su se stessi: un’operazione di scavo psicologico che prescinda dalla relazione più o meno complessa con il proprio compagno. A scuola bisognerebbe poter fare un percorso psicologico, sociologico e persino antropologico sull’argomento. Un’analisi che aiuti a capire cosa scatti nelle persone in questi casi, dall’una e dall’altra parte. Ma per farlo bisogna prima di tutto liberarsi dello stigma sociale che persiste intorno al tema dell’aiuto psicologico. Se a scuola si analizzassero i testi della musica trap con l’aiuto di qualche esperto, per dire, sarebbe già un inizio: la donna oggetto non è un retaggio del secolo scorso. Purtroppo». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero