Pierfranceso Favino: «Per il mio personaggio in Adagio ci sono volute 4 ore di trucco. Adoro trasformarmi, la gente si scorda che sono io»

L'attore si racconta al Messaggero: "Un Oscar non è garanza di qualità e noi invece se non ci danno la medaglietta loro sembra che non esistiamo"

Piefrancesco Favino dal 14 dicembre in sala con Adagio di Stefano Sollima e al Messaggero a parlare di una Roma distopica (quella del film noir con Servillo, Mastandrea e Adriano...

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Piefrancesco Favino dal 14 dicembre in sala con Adagio di Stefano Sollima e al Messaggero a parlare di una Roma distopica (quella del film noir con Servillo, Mastandrea e Adriano Giannini) e di una carriera ormai di dimensioni internazionali (lavora al progetto sul film sulla Callas accanto ad Angelina Jolie).

Con Adagio si chiude un cerchio cominciato con Akab e Suburra

«Direi che tra me e Stefano c'è un percorso condiviso: lui era il regista della serie tv Romanzo criminale, io il libanese del film di Placido»

In questo film che Roma si racconta?

«Non si vede la Roma della Grande Bellezza ma la Roma dove vive la gente, la Roma che serve a raccontare realtà apparentemente dimenticate». 

Ci sono tre grandi personaggi (Favino, Mastrandrea e Servillo), più un cattivo che è Adriano Giannini perché sempre a lei il compito di trasformarsi? Quanto ci metteva?

«Quattro ore più o meno. A me piace sottopormi a questa tortura per far scomparire Favino e far vivere il personaggio così come era stato immaginato. Io penso che servire la storia senza che tu sia di intralcio sia importante, è la cosa che mi interessa di più. Gli attori che amo, come Volontè o De Niro, hanno sempre pensato che la trasformazione fosse un valore aggiunto». 

Per noi romani i due archetipi Sordi e Proietti sono comici. Le piacerebbe fare un film comico?

«In realtà io ho sempre pensato che avrei fatto quello perchè facevo ridere».

Vive a San Saba, un luogo che - per dirla con parole due - si è sviluppato attorno a una comunità di eremiti. 

«Siamo abituati a pensare che il romano sia uno, in realtà esistono tanti tipi di romani, quartieri che si sono formati da gruppi dove la lingua è diversa, non è solo una quesione socale, ma di origini e di radici». 

Che Roma porta quando è fuori? Lei è uno degli attori italiani più hollywodiani (sarà al cinema con Angelina Jolie), sta diventando un sistema?

«Ancora no. Il problema è che noi italiani rappresentiamo noi stessi solo con il nostro pubblico. Un Oscar non è garanza di qualità e noi invece se non ci danno la medaglietta loro sembra che non esistiamo. Da tante settimane è primo in classifica un film di un'attrice e regista straordinaria, Paola Cortellesi, e non posso che essere felice. Segno che se ci sono buoni film, la gente al cinema ci va. La produzione iatliana sta ricominciando a pensare in grande. Ma  per fare un buon cinema in italia ci vuole quello che ha a che fare con il cinema e per un terzo è il pubblico che va riabituato a un'idea: stare in una sala è una sensazione diversa che stare in casa davanti alla tv». 

 

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Il Messaggero