LONDRA - Per arrivare al nuovo non-negozio di Banksy, bisogna prendere uno dei tanti treni che partono dalla stazione di London Bridge, sul Tamigi, verso la periferia meridionale...
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La porta d’ingresso c’è, un cartello indica che dovrebbe aprirsi da sola, ma ovviamente non lo fa. Nella prima vetrina del non-negozio svetta un registratore di cassa malconcio da cui piove (a mo’ di cascatella del presepe) dell’acqua su delle sporte per la spesa, su cui crescono piante rigogliose. Com’è noto, Banksy ha deciso di aprire questo (non) negozio per ragioni legali, consigliato dal suo avvocato, per evitare che altri sfruttino il suo marchio di street artist più famoso al mondo, per lucrare sul merchandising. Poiché se lui stesso (fedele alla sua invisibilità e alla sua allergia verso le logiche commerciali) non ha sfruttato il suo nome, ora è costretto a farlo. Il contatore di cassa alluvionato sta a sintetizzare, con ironia, proprio la situazione in cui Banksy si è trovato.
Procediamo: un’intera vetrina è costellata di orologi con il suo iconico topo (Pest Control, “derattizzazzione” è il nome della società che si occupa di verificare l’autenticità di ogni opera di Banksy e, soprattutto di evitare che arrivino sul mercato pezzi di street art urbano); proprio di fronte, su un cassone che racchiude una centralina elettrica, c’è un altro topo, appeso alle lancette, un classico disegno fatto con lo stencil e lo spray.
La vetrina ad angolo, principale, è un florilegio di creatività e intelligenza. In una sorta di salotto con un divano sfondato, e due cuscini (vendibili a coppia, dice un cartellino), con scritte che dicono “la vita è troppo corta” e “per prendere consiglio da un cuscino”. Sul muro tappezzato di rosso, un pesce rosso cerca di fuggire dalla sua boccia, mentre un altro, poco più in alto, cerca di intrufolarsi in un quadro in cui è dipinta una mareggiata. Sembra un perfetto piano di fuga.
Disteso, a terra, una sorta di tappeto con le sembianze di Tony la tigre, il personaggio animato degli spot dei cereali Kellogg's. C’è un camino, il focolare domestico, e un trittico con il classico manifestante che lancia un mazzo di fiori, che sbuca da un quadro all’altro. E poi: una famiglia di sfollati miniaturizzati che esce da un camion, quadri in corso d’opera; più avanti, un televisore lcd, con un bambino che fa la linguaccia sotto la pioggia, e un quadretto con la scritta: crisis as usual; una cornice si snoda come un serpente nell’atto di spalancare le fauci, che sembra scappato da una tela con dei fiori; memorabile la borsa composta di un mattone, posizionata strategicamente vicino a un asse da stiro: il cartellino la descrive come un oggetto “ideale per chi non ha molte cose da portare con sé ma potrebbe avere bisogno di colpire qualcuno violentemente sulla faccia”.
La gente osserva, con il sottofondo di musica jazz diffusa da un altoparlante, mentre una troupe televisiva russa fa uno stand up di fronte alle vetrine. Un ragazzone nero, che lavora in un fast food situato proprio di fronte, dice di non avere visto nessuno allestire quel negozio. «Che vuole, sono venuti di notte - dice - e poi lui sicuramente non si fa vedere facilmente». Neanche i suoi colleghi hanno visto nulla. Un ragazzo dice divertito: «Guarda quel giubbotto con l'Union Jack, è famosissimo».
Ci sono tazze con le immagini banksyane classiche, piatti, bombolette spray (molto probabilmente usate dall’artista misterioso durante le sue incursioni notturne). Chiude la teoria di "prodotti" un mucchio di giubbotti salvagente, illuminati da un faro: non a caso, il ricavato delle vendite (se ce ne saranno) sarà devoluto, nelle intenzioni di Banksy, al riscatto di una nave per il salvataggio dei migranti.
Alla fine si riparte, con una sensazione di libertà e leggerezza difficilmente ripetibile dopo una quasiasi esposizione.
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Il Messaggero