Torna la paura del clan ma grazie alle denunce arrivano arresti lampo

Torna la paura del clan ma grazie alle denunce arrivano arresti lampo
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Cene gratis, champagne e bottiglie di alto valore. Tutto preteso con arroganza e strafottenza, nella convinzione di poter spaventare soltanto pronunciando il proprio cognome. Un film che Latina conosce molto bene, prima il cognome utilizzato era quello dei Di Silvio, Travali o Ciarelli. Nell'ultimo episodio è Casamonica.


Ma stavolta non c'è stato bisogno di aspettare le retate della polizia, mesi o anni dopo i fatti. Ora le denunce sono arrivate subito e la risposta delle forze dell'ordine è stata immediata con l'arresto di tre persone della famiglia Casamonica: Diego, 43 anni, Guido e Marco, entrambi di 23, accusati a vario titolo di estorsione e tentata estorsione.


«Lo sai chi sono io no? Lo sai chi sono i Casamonica? Io sono Casamonica Marco e quando io chiedo qualcosa è gradito che venga esaudito». Ma prima di arrivare alla minaccia, più o meno diretta, si comportano in maniera fintamente amichevole, con una spavalderia che serve solo a capire il tipo di reazione che avrà la vittima. Se la vittima è impaurita non c'è bisogno della minaccia, se invece reagisce serve mostrare i muscoli.


Un copione ampiamente illustrato dai pentiti Riccardo e Pugliese durante le decine di interrogatori finiti negli atti delle indagini pontine. Un copione che ora si è ripresentato con i Casamonica.
Nel mirino un ristorante di pesce alla moda, al lido di Latina, e un bistrot altrettanto in voga in questo periodo, nel pieno centro della città. In entrambi i casi consumano senza alcun freno, per un valore di 1.600 euro nel ristorante e 600 nel bistrot. Ma poi non pagano, anzi pretendono di farsi pagare, tentando di farsi dare 800 euro e riuscendo a ottenerne 160.


PERSONALITA' SPREGIUDICATE
Il giudice Mario La Rosa, nell'ordinanza di custodia cautelare, parla di «personalità particolarmente spregiudicate, come emerge dalle modalità della condotta e dalle frasi pronunciate. Diego Casamonica addirittura ostenta il suo pregresso stato di carcerazione e la rimessione in libertà da appena due mesi».
E anche i due più giovani non sono da meno: «La loro condotta - scrive il giudice - non può qualificarsi come mera connivenza ma piuttosto essi hanno dimostrato di approfittare della fama criminale connessa al cognome che portano e dello stato di soggezione psicologica delle persone offese».


La stessa soggezione psicologica che gli investigatori della Squadra Mobile evidenziarono più volte, negli ultimi anni, nelle informative sui clan Di Silvio, Ciarelli e Travali. Loro esercitarono il potere sfruttando l'omertà e la paura delle vittime: commercianti, imprenditori, ristoratori, anche personaggi conosciuti chinarono la testa senza denunciare, pagando in silenzio.


Così il clan ottenne per anni, nel più totale silenzio della città, diversi benefici: cene, vestiti di marca, scarpe, catering, ma anche patatine fritte se ne avevano voglia. Non solo nessuna delle vittime denunciava ma addirittura, anche dopo gli arresti, durante il processo in tribunale si assisteva a un imbarazzante e ripetitivo «non ricordo» che denotava un evidente stato di paura e soggezione.


Adesso invece qualcosa è cambiato. Le denunce arrivano più frequentemente, probabilmente non tutte, ma almeno c'è un'inversione di tendenza rispetto alla totale soggezione che ha dominato per anni. Questo consente indagini lampo, come l'ultima portata avanti dalla Questura del capoluogo che ha portato a tre arresti dopo appena due mesi dai fatti. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero