L’Europa del riso alla guerra contro l’invasione da Oriente

L’Europa del riso alla guerra contro l’invasione da Oriente
C’erano una volta le mondine e pure le risaie. “Vittime” le prime della meccanizzazione agricola, adesso sono i campi a rischiare l’abbandono. Basta un...

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C’erano una volta le mondine e pure le risaie. “Vittime” le prime della meccanizzazione agricola, adesso sono i campi a rischiare l’abbandono. Basta un dato: gli ettari coltivati a Indica, la tipologia di riso a grana lunga, erano in Europa 171mila cinque anni fa, quest’anno sono solo 92mila. E a rischio sono le superficie delle altre tipologie, visto il crollo dei prezzi nell’ultimo anno: da 380 a 250 euro a tonnellata per il “tondo”, da 400 a 280 euro per il “lungo A”. «Con questi numeri – denuncia Giuseppe Ferraris, piemontese, presidente di Copa, l’alleanza delle cooperative agroalimentari europee – reggiamo altri due anni. Poi dovremo chiudere».


SOTTO ACCUSA
Sotto accusa è la Commissione Europea per l’accordo del 2009 con 42 Paesi Meno Avanzati, i cosiddetti LDC (Least Developed Countries). Per aiutarli nello sviluppo, l’Unione decise di azzerare totalmente i dazi delle loro importazioni. Nel settore del riso – si disse – è poca cosa, di fronte agli scambi da paesi come il Vietnam o la Thailandia con cui erano in atto accordi bilaterali. Nessuno allora riuscì a prevedere l’attuale invasione di riso da Cambogia e Myanmar: invece, le sole importazioni dai Pma si sono incrementate in meno di un decennio del 4.440% per il riso lavorato e del 5.650% per il risone. Oggi il 50% del consumo europeo di riso è coperto per il 50% da prodotto di importazione che per i 2/3 non paga i dazi di ingresso. «Ma questa liberalizzazione non ha certo favorito i piccoli produttori asiatici bensì le multinazionali che sfruttano i Paesi più poveri aprendo in loco stabilimenti di trasformazione», denuncia Paolo Carrà, presidente dell’Ente Nazionale Risi. 

LAVORO MINORILE
Che a dimostrazione di ciò, mostra i ritagli della stampa cambogiana, secondo cui non sono cessati fenomeni odiosi come il lavoro minorile nelle risaie, mentre i contadini locali hanno visto un valorizzazione delle quotazioni di appena due dollari al quintale.
Per il governo italiano, il ministro Maurizio Martina aveva sollevato, inascoltato, la questione durante un paio di riunioni dei ministri dell’agricoltura a Bruxelles. Ma il problema sembrava solo italiano, visto che il nostro Paese - con i suoi 234 mila ettari coltivati a riso, 4.265 aziende risicole, 100 industrie risiere per un fatturato annuo di 1 miliardo di euro sui 3 dell’intera Europa - è il primo produttore e trasformatore di riso del continente. Ora anche la sua quota di esportazione (il 70% della produzione, prevalentemente nella stessa Ue) è a repentaglio sotto la concorrenza dei meno costosi risi asiatici. 

GRIDO D’ALLARME
Finalmente il grido d’allarme è stato raccolto anche dagli altri paesi produttori del Mediterraneo (Spagna, Portogallo, Grecia, Francia, Bulgaria e Ungheria) i cui rappresentanti si sono riuniti per la prima volta ieri a Milano per affrontare la debacle. «Dobbiamo – afferma il presidente dell’Ente Risi – rivedere le concessioni uni e bilaterali della Ue che compromettono le produzioni di pregio del Sud Europa». Con molti Paesi non c’è alcuna reciprocità e il dito è puntato, in particolare, sull’uso dei fitofarmaci: estremamente – e giustamente – restrittivo in Europa, assolutamente incontrollato in molte zone dei Paesi LDC dove altissimi sono i livelli massimi di residui di antiparassitari consentiti nei prodotti alimentari, per esempio nel riso Basmati, molto usato in Italia. Perfino negli Usa, altro importante produttore di riso. «Trump è avvertito», scherzano a Milano. 

MANCA LA TRACCIABILITÀ

Altre parole d’ordine della neonata lobby europea del riso – il cui coordinamento sarà italiano – sono la tracciabilità del prodotto attraverso le etichette e la tutela del territorio: l’abbandono dei terreni coltivati a riso, denunciano i produttori, è una minaccia per l’ecosistema perché le produzione, allocate lungo le coste e sui greti dei fiumi, sono spesso – e specialmente in Italia e nel sud della Francia - una tutela naturale contro i disastri idrogeologici.

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Il Messaggero