Il futuro è scritto: la musica non si compra più, si affitta. Elementare conseguenza di un dato di fatto: al prezzo di un cd al mese si può avere a...
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CLASSIFICHE
Col passare dei mesi il fenomeno si conferma. Warner, Sony e Universal (sono i primi dati del 2016) raccontano di una crescita del 60 per cento. Warner incassa dallo streaming 2 milioni di dollari al giorno, Sony ha visto crescere le sue entrate musicali del 10,4 per cento. Billboard, mensile di riferimento del music business, ha deciso di aprire le sue classifiche allo streaming. Noi non siamo altrettanto veloci nel rendicontare i bilanci, ma a detta di Enzo Mazza, ceo della Fimi, il quadro del 2016 è in linea con il resto del mondo. Effetto inarrestabile della diffusione di Spotify, Apple music, Google Play, TimMusic, Deezer. Lo streaming nel mondo in 5 anni è lievitato del 400 per cento. Il boom ha avuto un effetto galvanizzante su tutta la filiera (in Italia il vecchio vinile ha toccato il più 56 per cento e il moribondo cd più 17 per cento).
Primo riscontro diretto di un paradosso che dura da anni (più o meno dall’avvento di Napster): la musica non era mai stata diffusa con questa ampiezza, ascoltabile ovunque e facilmente. Ora, finalmente, è stato trovato il modo di rendere produttiva la sua onnipresenza. Ma c’è un ma, su cui gli artisti e i produttori si dannano. Aumentano i fruitori, ma calano i guadagni. Lo hanno battezzato value gap. Frances Moore, capo di Ifpi (la federazione dell’industria fonografica) sintentizza così: «I ricavi, elemento vitale per ogni tipo di investimento sul futuro, non vengono ridistribuiti correttamente ai detentori di diritti». Intanto sui 900 milioni di streamers ad abbonarsi sono solo 68 milioni. Le entrate pubblicitarie per i servizi gratuiti sono irrisorie (634 milioni nel 2015). La parte del leone la fanno i colossi dello streaming, You tube in testa. Ora le major del disco sono pronte a scendere in campo con le loro star, in prima fila ci si è messa Katy Perry con Christina Aguileira, Billy Joel, Rod Stewart.
RESPONSABILITÀ
La richiesta, presentata al Congresso ma anche al Parlamento europeo, è di ridiscutere il Digital millennium copyright (Dmca), norma sull’assenza di responsabilità, per cui YouTube non è considerata responsabile dei video caricati in modo illegale dagli utenti. Musicisti e major in qualche modo dovranno rifare i conti anche con le altre piattaforme in streaming che pagano royalties irrisorie: 0,007 dollari a ascolto che, per l’artista diventano 0,001128 dollari su Spotify. E questo il motivo per cui in molti si rifiutano di offrire le proprie canzoni (da noi la vedova di Battisti). Le piattaforme replicano sostenendo che le statistiche dicono che solo il 20 per cento della gente è disponibile a pagare. Tesi realistica, ma che non tiene conto di un semplice fatto: se puoi non pagare per ascoltare musica, certo non ti viene voglia di mettere mano al portafoglio.
Il pubblico se vuole paga, come succede nei concerti, settore in continua crescita, fino a diventare la fonte primaria nelle entrate degli artisti (per i grossi nomi fino al 56 per cento dei guadagni). Prendiamo le cifre del nostro mercato: il fatturato nel 2014 era di 640 milioni, l’anno scorso è salito a 690, nel 2016 si stima a 750 milioni, grazie ad eventi come i concerti di Vasco Rossi all’Olimpico, di Ligabue al parco di Monza, di Springsteen e di David Gilmour al Circo Massimo. Questi ultimi spinti dalla scoperta (finalmente) che il palcoscenico ineguagliabile dell’antica Roma ha un fascino mondiale. Eppure, quando si esibirono i Rolling Stones, nessuno pensò che sarebbe stata una bella promozione per la città, e neppure ad alto costo, illuminare le rovine del Palatino. Cissà che stavolta non venga in mente a qualcuno.
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Il Messaggero