Per utilizzare il linguaggio dei giovani, Jannis “non se la tirava”: né nei rapporti diretti, né nei materiali con cui forgiava le sue opere; ma...
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LA CAPITALE
Amava raccontarsi. Nella Capitale «arrivai a Capodanno del 1956. Roma? La amo; Roma è Roma, non ha bisogno di nulla». Spiegava d’aver cercato di annullare lo spazio tra le sue opere e lo spettatore: una distanza che «è in un quadro di Morandi, ma non in uno di Pollock». E De Chirico, rispetto al passato, «sapeva creare altre visioni, innovative». In lui, esisteva il senso del sociale: si potrebbe quasi dire dell’«impegno», se non fosse ormai parola d’altri tempi. Lo spiegava così: no alle posizioni artistiche alla moda, e sì a Guernica; e diceva: «Quanta libertà aveva, per esempio, Caravaggio». Ritornava alla sua lingua originale: «Poiesis in greco significa fare; è questo il senso della poesia, e dell’arte: faccio una cosa che, prima, non esisteva».
La personale d’avvio alla Galleria La Tartaruga: Plinio De Martis la vedeva lunga; aveva aperto soltanto da sei anni, era il 1960. E dopo poco, già si ritrova nell’Arte povera, movimento teorizzato da Germano Celant in contrapposizione ad Achille Bonito Oliva e alla sua Trasavanguardia. Erano i tempi della Scuola di Piazza del Popolo: Roma era Capitale anche dell’arte; Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, e Giosetta Fioroni. Alcuni, li hanno chiamati «gli artisti maledetti»: Kounellis invece di certo non lo è mai stato. Anzi, perfino benedetto, se si può dire: a Santa Croce in Gerusalemme, lo si vede dal piazzale guardando la basilica sulla destra, ha lasciato un’opera piena di poetica, il cancello dell’Orto monastico dei frati. Raccontava di aver «visto il sacro negli oggetti d’arte comune». E di arte, in sé, nel profondo, ne possedeva tanta: amava pure scrivere.
A fine Anni 60, in un’altra grande galleria romana, quella di Franco Sargentini, L’Attico, la prima “performance” fa rumore: allinea sui muri bianchi, agganciandoveli come se fossero quadri, dei cavalli; l’artista ridotto quasi solo a stalliere. Però, negli anni 70, la commercializzazione, la civiltà dei consumi, lo infastidiscono. E realizza così una porta chiusa da pietre, che porta in giro per il mondo. Nel 1972 partecipa anche alla sua prima Biennale di Venezia. Ma sembra chiudersi maggiormente in sé: dal fuoco delle prime opere, passa alla cenere. E dai cavalli, ai buoi: assai prima di Damien Hirst, a Barcellona, ne mostra dei quarti appena macellati, che i ganci trattengono e le lanterne illuminano.
Negli ultimi vent’anni, si ricorda maggiormente di altri, che pure definiva propri maestri: Lucio Fontana, Alberto Burri. Si definiva pittore, pur non avendo mai dipinto un quadro: «Pittura è costruire immagini; e questo, per sé, è rivoluzionario: senza freni per l’immaginazione». Anche se non sempre paga: per quei 12 cavalli allineati al muro d’un ex garage, peccato di gioventù ma che contribuì alla fama, «più di un amico artista, per qualche tempo, mi tolse anche il saluto». Era in continua evoluzione: dalle frecce, dai numeri e dalle lettere, al paesaggio urbano; e poi, agli sperimenti. Lo reclamano a Napoli, in Messico, in Uruguay, in Argentina, a Londra; a Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, costruisce un enorme labirinto di lamiera, da cui affiorano gli oggetti canonici della sua arte: la juta, le pietre. A Firenze, celebra il David; a Catania, Santa Rosali. Corona il suo impegno sociale, e una certa sua non dichiarata religiosità, quando è a lungo in predicato per esporre alla Biennale di Venezia, nel primo padiglione che la Santa Sede ha realizzato nel 2013. Ma, alla fine, non è scelto.
PROGRESSO
Diceva: «Prendere troppo sul serio il progresso è un errore. Ipocrisia. Interessi. Non si può chiedere a chi abiti l’Amazzonia di vivere a New York e giocare in borsa. Le immagini non finiscono mai. Anzi, ti fanno sognare. E questo è indispensabile al mio mestiere». Che la terra, da lui tanto amata ma senza mai perdere di vista che qualcosa d’altro esiste “dentro”, gli sia lievissima.
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Il Messaggero