La terapia durerà due settimane, ma le prossime ore saranno molto importanti. I sintomi risalgono a giovedì, sarà fondamentale verificare come il primo paziente italiano...
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LA SITUAZIONE
Ieri alle 12 il bollettino medico ha spiegato: il paziente ha iniziato il trattamento sperimentale che è stato ben tollerato, «il farmaco utilizzato è stato ottenuto con una procedura speciale per l'importazione dei farmaci non registrati». Ha aggiunto il direttore scientifico Giuseppe Ippolito: «Sono stati richiesti sei farmaci, la loro somministrazione sarà decisa a seconda delle condizioni del paziente che non ha mostrato nuovi sintomi, è autonomo, vigile e non ha manifestato segnali di emorragie». C’è il versante dei timori dei dipendenti e degli altri pazienti. Allo Spallanzani sono perentori: «Per garantire la maggiore tranquillità degli operatori, nonché la sicurezza nella gestione del paziente, abbiamo destinato una task force di personale particolarmente esperto esclusivamente all'assistenza del paziente infetto».
Ma cosa succede quando i 30 operatori tornano alla vita normale? «Non rappresentano un rischio per la comunità, visto che seguono le procedure previste per i medici di rientro dai Paesi africani colpiti dall'epidemia». E mentre fuori dal bunker tutti parlano di lui, Fabrizio (da medico che ben conosce il virus) si sottopone alla terapia, che prevede anche l’uso del plasma dell’infermiera spagnola guarita dall’Ebola. «È molto forte», dicono allo Spallanzani. Fabrizio, infettivologo, appassionato di informatica ma anche di politica, è descritto a Enna come un tipo non banale e con un ritratto non proprio in linea con lo stereotipo del medico di Emergency (se mai ne esiste uno). La moglie ieri era a Enna. «L’importante è che mio marito guarisca», ha spiegato.
VERSO L’AFRICA
Intanto, l’impegno contro l’Ebola vede sempre l’Italia in prima linea. Presto partiranno per la Sierra Leone quattro virologi dello Spallanzani per allestire un nuovo laboratorio. Uno di loro (Antonino Di Caro, direttore del laboratorio di Microbiologia) ha spiegato: «Si parte per fare la differenza. Mettere a frutto anni di studio avendo la possibilità di aiutare sul campo tante persone è una tentazione irresistibile. Noi virologi ci stiamo preparando da più di 10 anni all'eventualità di una simile epidemia». Ha paura? «Tantissima. Ma questo è un lavoro che senza la paura non si può fare. La paura è un meccanismo di difesa e, se non ci fosse, rappresenteremmo un pericolo per noi stessi e gli altri poiché saremmo portati a sottovalutare i rischi».
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Il Messaggero