Alberto Veronesi, 49 anni direttore d’orchestra, è il terzo dei sette figli dell’oncologo. Il modo garbato di parlare è sovrapponibile a quello del...
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Lei ha parlato di musica, pittura e poesia?
«Sì, sapeva suonare la chitarra, dipingeva paesaggi, scriveva poesie. Queste ultime sono conosciute, lui stesso le ha inserite il alcuni dei suoi libri. Dei quadri, forse, si sapeva poco mentre spesso parlava di musica con competenza. Un amore vero».
Quello che le ha trasmesso?
«Amavo suonare il pianoforte fin da quando avevo dodici anni. E lui mi ha sempre spinto ad assecondare le mie aspirazioni. Come ha fatto con tutti i fratelli. Ci seguiva e quando intuiva le nostre passioni cercava di capire se c’era la stoffa per andare avanti».
Nel pubblico Veronesi era garbato ma assertivo, con voi in famiglia?
«Molto simile. Dopo il mio primo concerto mi si avvicinò e mi spronò a proseguire. Io ero ancora titubante sul futuro, lui era sicuro che sarei riuscito. Con garbo e assertività, appunto».
Quale era la musica del professore?
«Amava molto Beeethoven, le ultime sonate. Preferiva la cosiddetta “musica pensante”, quella senza retorica e senza eccessive ripetizioni. Conosceva bene anche quella contemporanea e gli piaceva».
E con la chitarra?
«Suonava e cantava i brani di Gino Paoli. Era piacevolissimo e si divertiva».
Ogni padre lascia un insegnamento che si mantiene nel cuore, il suo?
«Mi ha insegnato a guardare avanti e occuparsi degli ultimi. Ad avere un grande amore per l’umanità e per chi sta male. Un’umanità che ha lasciato a tutti noi. Mi aveva anche molto spronato ad occuparmi di politica, di battaglie civili. Quelle che lui ha sempre fatto».
Ricordi le battaglie che voi figli, con i sedici nipoti, dovete ancora portare avanti
«Oltre la medicina, per lui, c’era l’impegno civile. Fin da giovane. Oggi pensiamo al disarmo, alla pace, alle unioni civili, all’eutanasia, alla fecondazione assistita eterologa. Ultimamente teneva molto al referendum di dicembre».
Solo due di voi sono medici. Quindi la missione “battaglie” vale per ogni tipo di professione?
«Ognuno di noi dovrà riuscire a coniugare il nostro lavoro quotidiano con la partecipazione attiva alla vita pubblica. Da laico ha sempre sposato le grandi cause. Come filosofo ha unito etica e scienza. Non si è mai fidato di ciò che è precostituito. Lo seguiremo».
Il vostro ultimo periodo insieme?
«Per studiare, sono andato via di casa molto presto. Non avevo neppure diciotto anni. Poi lunghissimi periodi lontano dall’Italia. Solo recentemente, diciamo, sono tornato a “fare il figlio” perché resto più tempo nel nostro paese. Come se fossi sempre stato accanto ai miei genitori. Purtroppo, quando ci ha lasciati, non ero a casa sua».
Come voleva il professore, sostenitore dell’ospedale senza dolore, è stato sedato quando la sua condizione di salute si è aggravata, vero?
«Comunicava con gli occhi, a volte erano straordinariamente sorridenti per tutti noi che gli stavamo intorno. Lunedì gli avevo tenuto la mano per oltre un’ora. Le sue ultime parole sono state per nostra madre: “Come sei bella...”. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero