Fiat 500, la più amata ha 60 anni

Fiat 500, la più amata ha 60 anni
Il primo italiano a provarla, combattendo con le misure dell’abitacolo una battaglia meno cruenta di quella che lo aveva visto in prima linea a Caporetto, fu il presidente...

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Il primo italiano a provarla, combattendo con le misure dell’abitacolo una battaglia meno cruenta di quella che lo aveva visto in prima linea a Caporetto, fu il presidente del Consiglio democristiano Adone Zoli. Un paio di giri di collaudo nei giardini del Viminale, il primo luglio del 1957, con qualche ora di anticipo sulla presentazione ufficiale allo Sporting Club di Torino con l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta, Giovanni Agnelli, Gaudenzio Bono,  cinquanta esemplari di colore grigio e a bordo piscina, un numero imprecisato di meccanici in tuta bianca. A guardarli con l’orgoglio di chi si era visto inizialmente bocciare il progetto, Dante Giacosa, l’ingegnere laureato al Politecnico a 22 anni ed entrato poi in Fiat grazie a un annuncio letto sul giornale, che nel 1936, assecondando l’ambizione di Mussolini, aveva progettato «La piccola grande vettura del lavoro e del risparmio».


MUSSOLINI E AGNELLI 
Il Duce aveva “avvertito” Agnelli della necessità «inderogabile» di offrire agli italiani un’utilitaria che costasse meno di 5.000 lire e Giacosa, amante di Goya e di Picasso, con tratto geniale, aveva eseguito disegnando la Topolino cantata da Paolo Conte su cui a guerra conclusa si andava come un incanto osservando i cieli azzurri. Ventuno anni più tardi, quel modello si trasformò rimpicciolendosi e in meno di tre metri stipò i sogni degli italiani. Con due soli mozziconi di capienza nel posacenere e molto fumo in uscita dai tubi di scappamento, milioni di persone bruciarono notti e giorni a bordo di un’auto che costava l’equivalente di tredici stipendi di un operaio e dieci di un impiegato.

Con poco meno di cinquecentomila lire- anche in comode rate- la trinità del benessere consumistico che annunciava il boom (televisore, frigorifero, vetturetta) santificava con i beni materiali l’era di una promessa di futuro fusa con la rinascita di un’intera Nazione. Molto prima della questione operaistica, dell’orrore del terrorismo fuori e dentro la fabbrica e della condizione del migrante inurbato in una Torino con vista su Mirafiori fissata nei versi di Roversi cantati da Lucio Dalla(«Un’ auto vecchia torna da Scilla a Torino/ dentro ci sono dieci occhi ed uno stesso destino») la 500 significò coesione.

Aldo Grasso notò che il 1957, l’anno della genesi, coincise con quello dell’affermazione di Lascia o Raddoppia. Proprio come il giovedì sera il paese si bloccava davanti al piccolo schermo, nelle case dei fortunati possessori del televisore o in un bar gremito come un’arena con i gladiatori a duellare in bianco e nero, con la 500 si compiva il miracolo «dell’unificazione d’Italia perché il grande fascino di quella macchina consisteva in questo: Si è eroici e seduti, come in certe sere davanti alla tv». L’autostrada del sole sarebbe stata inaugurata solo nel 1964 e i primi viaggi in 500 erano dei veri e propri pellegrinaggi in cui alla pazienza doveva aggiungersi in dote il fideismo. 

SACRO E PROFANO
In quelle lunghe ore, nei 297 centimetri di lunghezza, si faceva di tutto. E nell’abitacolo entravano sacro e profano. Le vettovaglie dei fagottari in fuga verso il mare con le teglie di pasta sotto le gambe e il concepimento che-quando di emergenza demografica non si sentiva ancora parlare- aveva i sedili in finta pelle delle 500 come scenario naturale. Si viaggiava, si faceva l’amore e ogni tanto, con le soste obbligate per immettere l’acqua nel radiatore, si attraversavano regioni e paesaggi ancora integri e incontaminati. Renzo Arbore che la sua 500 grigia ancora la possiede, macinava centinaia di chilometri calcolando con attenzioni livello della benzina e documenti: «La mia era intestata a Gabriele D’annunzio perché me l’aveva venduta il nipote.
 

Quando mi avventurai al volante con l’obiettivo di coprire la distanza tra Foggia e Roma venni fermato dalla polizia in aperta campagna. Controllarono il libretto di circolazione e pensarono a un furto d’identità». L’identità della 500 invece fu chiarissima per molti anni. La compravano tutti. Uomini comuni e personaggi celebri. I tifosi del Milan assistevano agli equilibrismi di Fabio Cudicini, quasi due metri di altezza, non riuscendo a capire come il “ragno nero” riuscisse a entrare nella sua 500 bianca con cui si presentava ogni giorno a Milanello, mentre altri esploratori dell’impossibile, i ricercatori neozelandesi impegnati nel 1963 in missione scientifica al Polo Sud, utilizzarono proprio una 500 arancione come mezzo di trasferimento attraverso la banchisa lanciandola sul ghiaccio in condizioni apparentemente quasi impossibili per 76 chilometri.

Vennero poi altre immagini. Quelle degli italiani pazzi di gioia affacciati dei tettucci apribili nel giugno del ‘70 dopo la vittoria per 4-3 ai mondiali messicani contro i tedeschi e quelle dei tanti film da Mamma Roma ai I tartassati di Steno fino a Effetto notte di Truffaut in cui la macchina fu attrice non protagonista pur rimanendo icona di un’epoca segnata dal suo passaggio. 

GASSMAN E I PARCHEGGI 
Proprio come Gassman, che in C’eravamo tanto amati la fa parcheggiare agli automobilisti isterici in piazza del Popolo a Roma, anche la Fiat fece “accomodare” la 500 togliendo le chiavi dal cruscotto per accendere altri sogni. All’inizio degli anni ‘70, nel ‘72, venne lanciata la 126 e lentamente, prima che Marchionne ed Elkann si dedicassero a rilanciarla qualche decade più tardi, la 500 perse la sua centralità.


La smarrì soltanto a livello commerciale perché l’auto era entrata nella storia. Se Roland Barthes aveva elevato la Citroën DS, la dea del ‘67, spingendosi al parallelismo con il Nautilus, gli italiani non sarebbero stati da meno sventolando altri paragoni. Un ventennio dopo la pensione forzata della 500, si esercitò sul tema, con qualche ironia, Michele Serra: «L’italiano, cuor contento / sale sulla Cinquecento / e si accorge che il passato / per incanto è ritornato! / Mario Riva e il Musichiere / Mario Scelba e le galere / Mario Corso nello stadio / Mario Pio dentro la radio / che magia, che emozione / questa gran restaurazione! / Si ritorna all’obbedienza / al decoro alla pazienza / alla Patria e al focolare / alla pace familiare. / Si riaprono i bordelli / che consolano gli uccelli / maltrattati dalle triste / rivoltose femministe. / Un figliolo militare / fidanzata l’altra figlia / qualche rata da pagare / la domenica in famiglia. / Spose o vergini / le donne obbedienti gli scolari/ i nipoti con le nonne / il latino sugli altari. / Rispettare i superiori! / Obbedire ai genitori! / Il divorzio cancellato! / Basta con il sindacato! / L’italiano pensieroso / si destò da quel sognare / tornò all’oggi nebuloso / e decise il suo daffare / esclamò con forte accento / “Vaffanculo, Cinquecento”». A leggere tra le righe, più affetto che anatema, più nostalgia che avvelenata.  Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero