Il caso Sea Watch non accenna ad attenuarsi. «Tripoli non è un porto sicuro. Riportare coattivamente le persone soccorse in un Paese in guerra, farle imprigionare e...
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Alla Guardia costiera libica che indicava alla Sea Watch 3 Tripoli come porto dove sbarcare i migranti soccorsi, la nave umanitaria ha risposto picche. In una comunicazione postata su twitter e diretta un paio d'ore fa alla Marina libica, il capitano della Sea Watch fa presente che la nave «batte bandiera olandese ed è obbligata ad aderire alle leggi olandesi ed internazionali riguardanti la ricerca e soccorso di persone in mare».
E secondo le norme, «noi siamo obbligati a trasportare le persone soccorse in un posto sicuro»; ma un posto dove «le persone soccorse sono sotto una fondata minaccia di persecuzione o maltrattamento non può essere considerato un porto sicuro secondo la legge internazionale del mare». Dunque, aggiunge, «non possiamo sbarcare le persone soccorse in un porto libico nè indirettamente ad un'altra nave diretta in Libia».
A Tripoli, prosegue il comandante della Sea Watch 3, «dopo lo sbarco i migranti vengono portati nei centri di detenzione dove essi affrontano arbitraria e illimitata detenzione, dove i diritti umani di base non sono rispettati e dove è ampiamente documentato che essi sono esposti ad alto rischio di abuso, incluso maltrattamenti, tortura, lavori forzati, sfruttamento sessuale». Il capitano chiede dunque che sia fornita un'opzione di sbarco che assicuri «la salvezza dei migranti, senza ulteriormente prorogare il loro viaggio in mare».
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Il Messaggero