Libia, Haftar non ferma la guerra del petrolio. Bloccata anche l'Eni

Si è discusso di pozzi a Berlino, ma non di uno dei nodi principali di tutta la questione libica, ovvero della distribuzione delle entrate petrolifere. Ed è per...

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Si è discusso di pozzi a Berlino, ma non di uno dei nodi principali di tutta la questione libica, ovvero della distribuzione delle entrate petrolifere. Ed è per questo che il generale Khalifa Haftar, mentre mostra una vaga disponibilità a mantenere la tregua, esercita la maggiore pressione che può sul Paese, chiudendo anche i pozzi dell'ovest, quelli di Sharara ed El Feel (Elephant). Quest'ultimo, in particolare, è operato da Eni per il 33% con una media di 75 mila barili al giorno. L'Ente ha confermato che la produzione è stata parzialmente ridotta a seguito della chiusura di una valvola lungo l'oleodotto.


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Nel summit tedesco, le parti hanno ribadito di voler respingere ogni «tentativo di danneggiare l'infrastruttura petrolifera libica, qualsiasi sfruttamento illecito delle sue risorse energetiche, che appartengono al popolo libico, attraverso la vendita o l'acquisto di greggio libico e derivati al di fuori del controllo del Noc», e anche «una distribuzione trasparente ed equa del petrolio ricavi». Non può che preoccupare, dunque, che la produzione di petrolio - unico bene di sostentamento della popolazione libica - sia quasi del tutto azzerata. Ieri il movimento di protesta Rabbia del Fezzan del sud della Libia, ha rivendicato la chiusura dei giacimenti di Sharara ed El Feel, che segue a quella di qualche giorno fa dei giacimenti e dei porti della Libia centrale e orientale, dove lo stop ha riguardato circa 800 mila barili al giorno.

I LAVORATORI
Mustafa Omar, capo del sindacato dei lavoratori nel giacimento petrolifero di Sharara che si trova a circa 200 chilometri a ovest di Sebha, ha spiegato ad Agenzia Nova che alcuni individui hanno chiuso una valvola tra la zona di Al Riyayna e la città di Zintan, costringendo gli ingegneri a interrompere la produzione fino a nuovo avviso. L'impianto è gestito dalla joint venture Akakus, che riunisce la libica Noc, la spagnola Repsol, la francese Total, l'austriaca Omv e la norvegese Statoil e produceva circa 300 mila barili di petrolio al giorno prima di essere fermato. Il vicino giacimento di El Feel è invece gestito dalla Mellitah Oil and Gas, una joint venture tra la Noc e la compagnia italiana Eni.

La National Oil corporation (Noc, la compagnia petrolifera della Libia) ha dichiarato lo stato di force majeure, cioè l'incapacità di poter operare per cause di forza maggiore, sui carichi di greggio dai porti di Brega, Ras Lanuf, Hariga, Zueitina e Sidra. E secondo il presidente Mustafa Sanallah, «la Libia perderà, a causa di questa chiusura, quasi 800.000 barili di petrolio al giorno, equivalenti a 55 milioni di dollari al giorno».
Dietro la decisione, nonostante ufficialmente siano le milizie e le tribù locali a eseguire il blocco, c'è il generale della Cirenaica che sa quanto questo argomento possa incidere sugli equilibri nel paese. L'Esercito nazionale libico ha autorizzato le Guardie delle strutture petrolifere a consentire dei picchetti permanenti e dei sit-in per contestare il presunto sperpero delle risorse libiche da parte del governo di Fayez al Serraj per pagare le milizie turche.

L'AUDIT BUREAU

Nella bozza della dichiarazione finale di Berlino, la questione della distribuzione delle entrate, uno dei principali oggetti di contesa del conflitto, viene affrontata in modo marginale. Il dossier viene rimpallato al «dialogo intra-libico» portato avanti dalle Nazioni Unite con degli incontri a Ginevra, ma si chiede «di migliorare la capacità delle pertinenti istituzioni di controllo libiche, in particolare l'Audit Bureau, l'autorità di controllo amministrativo, l'autorità nazionale anticorruzione, l'ufficio del procuratore generale le commissioni parlamentari competenti, secondo l'Accordo politico libico e le leggi libiche pertinenti». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero