Trappola Brexit per Johnson, ancora un rinvio. Il premier rifiuta di chiedere proroga all'Ue

Una trappola parlamentare tesa al momento giusto, ennesimo episodio della faida infinita in casa Tory, ferma di nuovo la Brexit. Bloccando a un passo dal traguardo l'accordo...

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Una trappola parlamentare tesa al momento giusto, ennesimo episodio della faida infinita in casa Tory, ferma di nuovo la Brexit. Bloccando a un passo dal traguardo l'accordo raggiunto in extremis da Boris Johnson con Bruxelles per l'uscita dall'Ue e rimettendo in discussione la scadenza del 31 ottobre, linea del Piave del primo ministro. Contrordine a Westminster. Il voto decisivo atteso per oggi sul 'Boris deal' salta. E il muro contro muro fra Parlamento e governo, con il premier che per ora si rifiuta di prendere tempo con la richiesta di proroga ai 27 imposta per legge, riprecipita la situazione nel caos e nell'incertezza.


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Tutta colpa (o merito, a seconda dei punti di vista) di un emendamento partorito dall'inesauribile repertorio di cavilli regolamentari di sir Oliver Letwin, impomatato e manieratissimo mandarino conservatore pro Remain espulso di recente dal gruppo per aver rotto con la linea di Johnson. Un collezionista di poltrone di scuola thatcheriana, improbabile come pochi altri nei panni del ribelle, e disponibile in effetti ad appoggiare l'accordo sulla Brexit del primo ministro. Ma non subito. È stato lui a promuovere l'iniziativa - appoggiata da altri dissidenti Tory emarginati e avvelenati, come l'ex cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, oltre che dalla quasi totalità delle opposizioni e dagli unionisti nordirlandesi del Dup - che ha fatto saltare il banco. 

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Un emendamento, appunto, concepito per far slittare la resa dei conti sull'accordo sulla Brexit fino all'approvazione di tutta la legislazione connessa (l'insieme di norme attuative che disciplineranno nel dettaglio l'uscita), quindi verosimilmente oltre la scadenza del 31 ottobre promessa da Johnson. Un emendamento passato alla fine con 322 voti contro 306. Letwin e soci hanno motivato il colpo di freno con la necessità di garantirsi dal timore che il no deal potesse rientrare dalla finestra, in caso d'intoppi alle leggi allegate. Johnson ha viceversa interpretato la manovra come uno sgambetto, l'ennesima operazione dilatoria. E ha risposto a muso duro. Il deal, ha fatto sapere, tornerà in aula lunedì, in contemporanea con la calendarizzazione, ma non certo con l'approvazione di tutto il pacchetto legislativo previsto per il recesso dall'Ue. E nel frattempo non scatterà, salvo ripensamenti, la richiesta di estensione dei termini del divorzio al di là di fine ottobre che a questo punto si renderebbe necessaria secondo i dettami del Benn Act: la legge approvata a settembre dai suoi oppositori per imporre il ricorso alla proroga in mancanza di un'intesa con l'Ue ratificata a Westminster entro le 23 del 19 ottobre.

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«Non negozierò un rinvio e la legge non mi obbliga a farlo», ha tagliato corto il premier al riguardo, anticipando la fine della seduta straordinaria del Parlamento - la prima in un week end dai tempi della guerra delle Falkland - dopo il voto sull'emendamento Letwin. Non solo: fonti di Downing Street hanno aggiunto che se il Parlamento riuscirà a far arrivare in ogni caso una lettera ai 27, per domandare l'estensione, il capo del governo suggerirà ai leader europei di rigettarne la concessione in quanto «non necessaria». Da Bruxelles e dalle capitali europee le reazioni appaiono d'altronde di attesa, ma sconcertate. Con tanto di minaccia esplicita di veto sull'eventuale proroga da parte della Francia di Emmanuel Macron, in barba al fuoco di sbarramento delle opposizioni britanniche contro Johnson. «Il primo ministro deve rispettare la legge», ha ammonito il leader laburista Jeremy Corbyn, respingendo «il ricatto» da 'prendere o lasciarè sull'accordo congelato (ma non affondato) oggi: un accordo definito «eccellente» da BoJo e giudicato viceversa dal compagno Jeremy una sciagura per il futuro dell'economia, delle giovani generazioni, dei diritti dei lavoratori del Regno. Sulla stessa linea, la LibDem Jo Swinson e l'indipendentista scozzese Ian Blackford, secondo cui Johnson «non è al di sopra della legge» e potrebbe essere trascinato a questo punto «in tribunale».

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Sullo sfondo, a incoraggiare il fronte anti-Boris, è la nuova marcia del popolo pro Remain che oggi stesso ha portato in piazza a Londra decine di migliaia di persone (un milione, a dar credito alle stime degli organizzatori del movimento Peoplès Vote) per invocare un secondo referendum. Anche se in realtà proprio i numeri dell'emendamento Letwin - contando i 18 Tory o ex Tory che l'hanno appoggiato o si sono astenuti assicurando di essere comunque favorevoli al 'Boris deal' - lasciano intendere che il via libera alla Brexit targata Johnson potrebbe essere soltanto un appuntamento ritardato. E ritardato di poco.
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Il Messaggero