Maria Grazia Chiuri: «Da piccola mi vestivano come Heidi. A 12 anni ho comprato i jeans alle bancarelle»

Maria Grazia Chiuri: «Da piccola mi vestivano come Heidi. A 12 anni ho comprato i jeans alle bancarelle»
Aveva pensato di presentarsi «con i capelli a zero», ieri al Costanzi di Roma, per la prima di Serata Philip Glass. Poi è stata presa dalle ultime prove e ha...

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Aveva pensato di presentarsi «con i capelli a zero», ieri al Costanzi di Roma, per la prima di Serata Philip Glass. Poi è stata presa dalle ultime prove e ha lasciato perdere. Maria Grazia Chiuri, 55 anni, direttore creativo di Christian Dior, ha disegnato gli abiti per il balletto in scena fino a martedì. Ammette: «Mi è sempre piaciuto sperimentare e se c'è una cosa di cui sono sicura è che nella vita si cambia. Vestirsi è una rappresentazione, ma non devi soffrire per essere elegante. Se non ti riconosci più nell'immagine che vedi riflessa devi cambiare. Puoi sempre tornare indietro». Una filosofia di vita che snocciola sorridendo mentre giocherella con i suoi tanti anelli, tra un orlo da accorciare all'ultimo minuto e un caffè per ricacciare indietro la stanchezza.


Chiara Ferragni musa di Dior, star all'Opera di Roma

Emozionata?
«Sì, sono molto felice. È la prima volta, dopo tre anni, che sono a Roma per un progetto, qui all'Opera, dove avevo già vestito La Traviata di Valentino poco prima di lasciare la città. La proposta è arrivata dopo la presentazione della collezione primavera/estate Dior sul ballo».

Che difficoltà ha trovato rispetto al prêt-à-porter?
«Questo è un balletto classico e ha regole più stringenti: ti mette di fronte a sfide diverse e a un differente messaggio del corpo. Abbiamo creato vestiti couture. Il riferimento è l'abito Miss Dior, che è un modello molto costruito e dai volumi anni Cinquanta. Ho cercato di renderlo più leggero e contemporaneo, schiacciando i fiori, rendendo eterei i volumi di modo che non intralciassero i movimenti dei ballerini, e trovando materiali elastici da sovrapporre».

Cosa vorrebbe che provasse il pubblico?
«Emozione. Il ballo appartiene a tutti, è una forma artistica primordiale, tutti ballano. Vorrei che fosse un modo per portare a teatro chi normalmente non lo frequenta e per attrarre le nuove generazioni, in modo che si viva davvero il momento senza vederlo attraverso uno schermo».

Maria Grazia sa ballare?
«Direi di non essere molto portata. Cioè, non ho mai fatto scuole di ballo, nemmeno da bambina, ma mi piace. È qualcosa di liberatorio».

Le prime ballerine sembrano volare, ma lavorano sodo e hanno i piedi martoriati. Quali sono le sue ferite?
«Devi avere un'enorme disciplina ed è la cosa più difficile. Dietro lo stereotipo della folgorazione artistica c'è tanto studio e tanto lavoro. L'aspetto positivo è la passione, che non ti fa pesare il rigore e ti presenta l'impegno come una necessità espressiva».

Sua mamma era sarta. L'ha mai influenzata nel modo da vestire?
«Da piccola, come tutte le mamme, sceglieva per me uno stile un po' romantico. Poi sono arrivati gli abiti tirolesi».

Cioè?
«Amava le Dolomiti e quando tornava dalle vacanze era sempre carica di vestiti tipici. Me li faceva indossare, con tanto di pantaloncini in cuoio ornati di pon pon, pettorina con le stelle alpine e per completare il tutto due trecce: praticamente Heidi».

Si è ribellata?
«A 12 anni sono andata a via Sannio a comprare un paio di jeans e una camicia militare. Con le amiche ci ricamavamo sopra tulipani, compravamo i cerchi di bambù per fare borse col denim».

Questa sua passione per gli abiti l'ha portata a Parigi, in famiglia come l'hanno presa?
«Meglio di me. Mio marito e i miei figli erano entusiasti. La più perplessa ero io. Sono una contraddizione vivente, amo i mutamenti ma ero cosciente di dover uscire fuori dalla mia comfort zone della quotidianità. Poi mi sono ricordata mio padre, che ci ha sempre detto: Prova, se va male torna a casa. Credo davvero sia importante provare e verificare se una cosa ti piace oppure no. Io, per esempio, ho provato a suonare il pianoforte, ma non sono portata e ho lasciato perdere».

Adesso deve parlare e ragionare in tre lingue...
«È l'aspetto più difficile. Le prime settimane a Parigi tornavo a casa col mal di testa, ma poi quando si ha una passione in comune ci si capisce. Non ci si dovrebbe mai dimenticare di venirsi incontro».

Un posto del cuore a Roma?
«Difficile scegliere: Roma è sempre una scoperta e il passato è presente senza schiacciarti. Cosa che mi ha aiutato da Dior, dove non mi sono sentita sopraffatta dalla storia. Amo la Galleria d'Arte Moderna, che è stata sempre una presenza costante nella mia vita: ci passavo davanti anche quando andavo al liceo».

Una mostra che ha nel cuore?
«A Valle Giulia, avrò avuto 18 anni e andai a vedere Enea nel Lazio sull'arte etrusca. Andai con Paolo, che poi è diventato mio marito, e lui ricordo che disse: Mi hai fatto vedere coccio per coccio, per sottolineare il mio zelo, forse eccessivo».

Se avesse qui davanti Christian Dior cosa gli direbbe?

«Lo inonderei di domande sulla sua galleria d'arte e sui suoi amici artisti, che incontrava nei caffè. Vorrei conoscere il Dior giovane, non quello del 1947, ma quello tra le due guerre. Se avessi la macchina del tempo sarei onorata di vivere in quel periodo a Parigi».

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Il Messaggero