«La cultura può essere una grande risorsa. Lo diceva l'imperatore Adriano. Io ci ho impostato tutta la mia vita, lavorando sul territorio». La casa di moda...
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L'imprenditore e mecenate, classe 1953, sarà a Roma, il 22 maggio, per un convegno al teatro Argentina, centrato proprio sulle partnership creative tra eccellenze imprenditoriali e artistiche. Prezioso sarà il racconto del cammino che lo ha portato alla creazione di un brand ricercato e di un'impresa villaggio, simbolo di un capitalismo umanistico, che restituisce a chi ci opera una dimensione umana del lavoro: bonus per acquisto di biglietti di spettacoli e libri, poche mail e comunicazioni a voce, termine del lavoro alle 17.30 «sennò - spiega - si ruba l'anima».
Perché ha preferito investire sul teatro e non sull'arte contemporanea, come molti altri imprenditori, o sulle stagioni liriche, come altri stilisti?
«La mia passione per il teatro nasce al bar. È il posto, dove da ragazzo, ho imparato ad ascoltare le storie. Davanti a un bancone c'è sempre qualcuno che racconta qualcosa e qualcun altro che ascolta. Allora c'erano soprattutto uomini. A tarda sera giocavamo a rifare Rischiatutto. Un palcoscenico tra i tavoli e i bicchieri svuotati. E da lì ho sempre avuto il sogno di ricreare quella anomala agorà».
Il mecenatismo ha più forme: alcuni brand restaurano monumenti cittadini, lei ha scelto di costruire un villaggio-modello. Perché?
«L'importante è sentire la responsabilità della bellezza. Era scritto nella costituzione senese del 1300. Ho bonificato una valle per restituire dignità alla natura, alla terra. Ho restaurato un paesino, costruito un teatro e il resto. Le strade sono tante. Incredibile e incoraggiante che salvaguardare la bellezza, in ogni sua forma, sia diventato... di moda».
Morale, dignità e follie del fashion system: come si concilia il tutto?
«Lei mangerebbe in un piatto prezioso se per produrlo sono stati fatti danni all'umanità? La sensibilità si può applicare ovunque. Internet ha creato collegamenti tra popoli e Paesi diversi, tutti possono controllare come lavora un'azienda e come utilizza i suoi profitti».
Che cosa l'ha portata a scegliere il cachemire?
«Avevo letto da qualche parte che un pullover di cachemire è un qualcosa che dura, che si lascia in eredità. Io non ho mai comprato per buttare. E nonostante produca maglioni, sarei felice di regalare ai nipoti proprio i miei. C'è un'enorme differenza tra utilizzare e consumare. Gli esseri umani non dovrebbero mai consumare, ma utilizzare quello che la terra ci dà. Sentiamoci custodi, come dice papa Francesco».
Oltre al cachemire quali sono i tessuti su cui state investendo?
«Cotoni, canapa, i materiali che possiamo lavorare noi, con un occhio all'innovazione, altrimenti, giovani addio!».
I suoi capi sono ricercatissimi anche all'estero: i clienti cinesi o americano vengono sedotti dalla qualità della maglieria o dalla filosofia con cui vengono prodotti?
«Il mio brand ha fascino anche perché nasce qui. Perché sono il frutto di una storia, di una cultura, della tradizione del grande artigianato italiano. Il sessanta per cento della moda francese viene prodotta qui. I cinesi producono da noi perché la targhetta made in Italy fa la differenza».
In passerella sfilano uomini-donne. Che cosa ne pensa?
«Non scherziamo. L'uguaglianza va cercata nella società. La bellezza è un'altra cosa».
Il dono: una parola che ripete spesso. Quali doni ha ricevuto in cambio dei suoi doni?
«Quando una persona riceve una carezza, sta meglio. Lavora meglio, pensa meglio e si comporta meglio. Io mi sento molto accarezzato dalla vita».
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Il Messaggero