ROMA - Per i giudici d'appello c'è una certezza: Francesco Carrieri, il direttore di banca romano che nel maggio 2017 uccise la sua compagna, era «incapace...
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Prof uccisa dal compagno, la madre scrive ai giudici: «Lui ha mentito a mia figlia, potrebbe ancora far del male»
Si chiude con un dimezzamento di condanna una vicenda che fin dall'inizio ha catturato l'attenzione dell'opinione pubblica. Oggi, la riforma della sentenza è stato motivata con il riconoscimento della seminfermità mentale, ritenuta equivalente all'aggravante dei futili motivi contestata. La vicenda fu ricostruita anche dopo le dichiarazioni dello stesso imputato. Carrieri il primo maggio 2017 uccise la compagna Michela Di Pompeo, insegnante della prestigiosa Deutsche Schule, nella sua abitazione di via del Babuino, nel centro storico di Roma.
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Al culmine di una lite, la colpì con un peso da palestra uccidendola sul colpo. Fu lo stesso uomo, dopo l'arresto, ad ammettere la sua responsabilità. «Quella sera eravamo rientrati da un weekend fuori - disse - presi il suo telefono per vedere i messaggi, era la prima volta che le controllavo il telefono, forse era successo una volta.
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Nel lungo iter processuale, un passaggio significativo si è avuto quando i giudici d'appello hanno deciso di venire a capo in maniera definitiva sulla questione della capacità o meno d'intendere e volere dell'imputato. E l'hanno fatto affidando la verifica a un collegio di periti. Gli psichiatri Gabriele Sani e Massimo Di Genio si sono confrontati con gli accertamenti tecnici disposti ed effettuati in sede d'indagine e nel corso del rito abbreviato.
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In sostanza, due consulenti tecnici (i professori Stefano Ferracuti e Maurizio Marasco) avevano concluso per la parziale infermità di mente, mentre il perito nominato dal gup (Gianluca Somma) per la totale capacità. Il fatto che i tecnici avevano valutato Carrieri cronologicamente in tempi diversi - i primi al momento dei fatti, l'altro dopo un anno - ha portato i giudici d'appello ad affidare il nuovo incarico, concluso con una risposta chiara: al momento dei fatti, l'uomo «versava in condizioni tali da almeno grandemente scemare la capacità d'intendere e volere» e in considerazione della buona risposta alla terapia farmacologia gestita negli ultimi due anni in carcere, «si può escludere la pericolosità sociale in senso psichiatrico, a condizione che non interrompa le cure». Di lì, la conclusione d'appello di oggi, la strada è stata tracciata: sedici anni di reclusione e tre di Rems. Non è escluso, però, il 'passaggiò in Cassazione. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero