Una donna contro il sistema. Come Davide contro Golia. Dopo la morte di suo figlio - fucilato nel 2000 in Uzbekistan - Tamara Chikunova si è battuta contro la pena di morte...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 6 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
Suo figlio quando fu ucciso aveva solo 28 anni. A nulla sono valsi di appelli per salvare Dmitry Chikunov. Tamara non si è persa d'animo e con un dolore straziante per non essere riuscita a fare uscire dalla prigione Dmitri, ha fondato l’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura”. A distanza di quasi vent'anni da quegli eventi gira il mondo raccontando la sua storia, l’esecuzione ingiusta del figlio e l'incapacità della società civile di avere l'ultima parola.
Recentemente ha fatto tappa in Vaticano e a Vatican News ha sintetizzato la sua odissea. «Vivevamo e lavoravamo a Tashkent fino a quel 17 aprile 1999. Nell’ufficio di mio figlio si presentarono tre uomini in abiti civili per arrestarlo» spiega Tamara, chiarendo che ebbe fin da subito la sensazione che qualcosa non andasse. Chiesi il motivo di tale provvedimento e mi fu risposto che si trattava di una formalità. Ma da quel giorno Dmitry non uscì più dal carcere. Poche ore dopo anche lei venne fermata e interrogata per dodici ore. «Mi picchiarono perché continuavo a chiedere notizie di mio figlio. Riuscii a vederlo solo dopo sei mesi e stentai a riconoscerlo».
La polizia pretendeva che firmasse la confessione di un crimine. «O firmi la confessione o ti spariamo, fu la minaccia. Dmitry cedette solo quando gli fecero ascoltare le urla di disperazione e di dolore durante il mio interrogatorio. Così mio figlio firmò la sua condanna per salvare me». A novembre fu emessa la sentenza e venne ucciso a colpi di fucile nel carcere di Tashkent.
Quaranta giorni dopo le fu recapitata l’ultima lettera scritta da Dmitry prima di morire: «Mia cara mamma, ti chiedo perdono se il destino non ci permetterà di incontrarci. Ricorda che io non sono colpevole, non ho ucciso nessuno. Preferisco morire, ma non permetterò a nessuno di farti del male. Ti voglio bene. Sei l'unica persona cara della mia vita. Ti prego, ricordati di me».
Da allora questa donna non ha mai smesso di battersi e trasformare il suo dolore in testimonianza concreta al fianco delle vittime. Il primo gennaio 2008 l'Uzbekistan abolisce la pena di morte. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero