Bianca Pucciarelli Menna, classe 1931 (anche se non lo dimostra), in arte Tomaso Binga, parla molto. Non solo con la voce squillante, ma con gli occhi che brillano, col sorriso,...
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Perché ha scelto un nome maschile e quali ripercussioni ha avuto?
«Assumere un’identità maschile voleva essere una provocazione, un modo ironico e paradossale per denunciare i privilegi di cui gli uomini godevano anche nel contesto artistico».
Rifarsi a Marinetti, che certo non era femminista, col nome Tomaso non era un po' un controsenso?
«Di Marinetti ho amato fin da bambina la genialità delle sue iperboli verbali e ne ho preso il nome, alleggerendolo di una emme, Tomaso, in omaggio all’artista, quindi in modo coerente a quello che stimavo e stimo di lui, senza distinzioni di genere. E d’altra parte Marinetti, nato nel 1876, aveva avuto certamente un’educazione in epoca pre-femminista».
Nelle tue opere spesso guarda alle donne. Quale il loro ruolo attualmente?
«Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante, il problema, semmai, è che non è stato permesso loro di giocarlo liberamente e fono in fondo, godendo del sostegno della famiglia e con il pieno riconoscimento da parte del sistema. Una situazione totalmente impari rispetto agli uomini, che ha generato grande frustrazione, ma soprattutto sfiducia in loro stesse e una pericolosa inclinazione a credersi vittime anziché protagoniste dei cambiamenti».
Si parla tanto di femminismo. Ma cosa è per lei e ne abbiamo ancora bisogno?
«Che se parli va bene, ma credo anche che oggi il termine femminismo andrebbe sostituito con sorellanza; una bellissima parola che esprime assai meglio l’energia che ci attraversa e di cui, di quella sì, abbiamo tutti bisogno, donne e uomini».
La poesia letta alla sfilata di Dior termina con "Vittoria Zittita". Le donne sono vincenti o la loro è una vittoria ancora non piena?
«Si dice che vincere una battaglia non è vincere la guerra. La metafora bellica non si addice all’obiettivo che tutti, donne e uomini, dovremmo perseguire: uno stato di armonia dove a tutti gli esseri viventi, umani e non, venisse riconosciuto il diritto di esistere e realizzarsi secondo la propria natura. La chiusura della poesia non è una sentenza, ma un monito: bisogna restare vigili, perché i diritti e le libertà che abbiamo ottenuto non sono eterni».
Nel 2015 con la performance Utero di Sirena hai appoggiato la pratica dell'utero in affitto, mentre la maggior parte delle femministe sono contrarie. Perché è a favore?
«Prima di tutto dovremmo osservare le questioni come questa da una prospettiva che riconosca il cambiamento verso il quale stiamo andando e quello che ci siamo lasciati alle spalle. Oggi una donna che concepisce un figlio fuori dal matrimonio non scandalizza più, ma anche solo quarant’anni fa era marchiata come una poco di buono con un ostracismo feroce. Sono favorevole all’utero in affitto perché lo considero un dono, un modo di praticare la stessa generosità di chi dona un rene o il midollo spinale. E’ discutibile, certo, ma sarebbe miope non osservare che il futuro che ci attende in materia di procreazione avverrà probabilmente in totale assenza di qualunque atto fisico che oggi chiamiamo ‘amore’ e allora perché scandalizzarci o criticare quello che, ai miei occhi, contiene ancora un così grande contributo ‘umano’? Mi dispiace solo che non vivrò abbastanza per testimoniare quello che scrissi tempo fa in un piccolo racconto di fantascienza: una società di robot in cui alcuni robot-scienziati cercano di ricostruire la generazione della vita ai tempi del genere umano». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero