«La quarantena che volevo non era questa. Ma ora ho trovato la forza per scriverlo e poi, forse, anche urlarlo. Prima non c’era la paura per il Sars-coV-2,...
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Allora inizia a non sorridere più, cammina guardando per terra, colei che ha sempre amato osservare il mondo con gli occhi di una bambina... E questo “virus” a mano a mano continua ad insinuarsi, fino a farle perdere il controllo di sè stessa. Questa donna aveva amiche vere, amicizie ventennali, aveva una vita sociale “normale” (almeno penso), ovvero confidarsi con amiche, scambiare due parole con colleghe e sì, anche colleghi perché per lui è inconcepibile che ci sia un’interazione tra una donna (io) ed un altro uomo, anche se si tratta del fornaio quando si va a comprare il pane. Perché se questa donna entrasse in “contatto”, per interloquire intendo, con un essere maschile all’infuori di lui (il farmacista, il salumiere, il commesso), questa donna “sta cercando qualcos’altro”. Questa donna adesso non ha più nessuno. Ha allontanato tutti per paura delle sue violenze...... Stava morendo dentro. Nemmeno i suoi figli la riconoscono più e, nonostante la sofferenza nei loro occhi, la nebbia che offusca il suo cervello non le permette più di vedere niente. Ma continua ad indossare la sua maschera, fingendo che tutto vada bene. Lui è un essere molto insicuro, solo, privo di luce e lei si è fatta inghiottire dalle sue tenebre. Quindi, si è imposta l’autoisolamento per paura di un essere ancora più subdolo di questo virus, perché ha paura di sentire le sue parole che sono solo il frutto di una mente malata e perversa, incline a distruggere tutto ciò che ha intorno. C’era una volta una bella donna che si curava, si vestiva in modo presentabile, sempre di nero ma mai in modo appariscente. Adesso però, questo isolamento che dura da anni, l’ha resa un relitto, un essere irriconoscibile: usa creme senza profumo (se no poi “gli altri” pensano che il profumo gradevole di una crema sia per loro, non per me), si veste in modo sciatto per nascondere il suo corpo (se no poi “gli altri” mi guardano e lo faccio di proposito per essere guardata), non si trucca più (non sia mai questi “altri” dovessero pensare che lo faccio per loro). Come se non bastasse, l’importantissima azienda per la quale questa donna lavorava, ha perso un importante appalto. Morale della favola: a casa in disoccupazione. Bene, potrà dedicarsi interamente ai suoi figli per un po’, ma anche questo non andava bene, perché “chissà cosa farai quando sono a scuola”.
Allora ha deciso di “sfruttare” il tempo in cui i figli erano a scuola, per isolarsi ancora di più.
Una lettera lunga, difficile tagliarla. C'è una tale sofferenza in ogni parola e così tanta lucidità nel raccontare il percorso verso il totale annullamento di sè, che togliere qualcosa sarebbe stato come esercitare un'altra violenza. E allora, ecco tutta la lettera di R (nel testo non c'è solo l'iniziale del nome). «Io sono R - si conclude così - ma per gli altri sono Anonima. É così che voglio vivere per proteggermi». Uno dei pochi passaggi in cui R dice io sono, per il resto della lettera parla di sè in terza persona. Una donna, un fantasma. Ecco da dove forse può partire, cara R, per cominciare a liberarsi da questa condanna: vivere come un'ombra, da clandestina della sua stessa esistenza. Ricominci dalle ultime righe della sua lettera. «Io sono R....», lo ripeta. Mille volte, fin quando piano piano tornerà ad esserlo.
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Il Messaggero