Carolina, ferita a morte da 2600 like su un video girato mentre lei era svenuta e violata da cinque compagni, volata giù dalla finestra di casa....
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Spinsero una quattordicenne al suicidio, per 5 giovani reato estinto
Lo possiamo chiamare cyberbullismo. O revenge porn. Lo possiamo chiamare polarizzazione, scontro. In realtà i nome sono antichissimi: odio, violenza.
Paolo Picchio è il papà di Carolina, la prima vittima riconosciuta di cyberbullismo, che gli è sfuggita tra le mani quando lei aveva 14 anni, lasciandogli una impalbabile scia di dolore - per quello che le era successo - e di amore per lui.
La scelta era se andare avanti sottotraccia o guardare avanti, trovare una nuova ragione di vita. Paolo Picchio ha preso questa seconda strada. Che poi ha sempre un nome solo, vivere per ricordare Carolina, vivere ancora un po' in sua compagnia.
Per questa sua decisione di guardare avanti, Picchio non vuole perdere tempo in sentimenti negativi. Non si sente frustrato se oggi, l'odio sui social dilaga. Non più solo diretto a persone che si conoscono, ma un odio generalizzato, gettato addosso a presunti nemici che nemmeno si conoscono, un odio che diventa addirittura strumento politico.
«In un anno e mezzo ho incontrato 30mila ragazzi, nelle scuole, negli oratori, in tutti i luoghi dove mi hanno chiamato. Ho costruito una fondazione (www.fondazionecarolina.org) con un team di specialisti che intervengono concretamente nelle scuole quando succedono "pasticci"» così li definisce Picchio. Incontri, formazione, consulenze, interventi. « I ragazzini mi si avvicinano, mi ringraziano. E' vero, qualcuno mi dice che quello che faccio è come svuotare il mare con le mani. E io rispondo che sto seminando cambiamento e che spero germogli». E di cambiamenti, dopo la morte di Carolina, il suo papà ne ha attuati anche altri. Perchè la legge sul cyberbullismo porta proprio il nome della figlia, perchè adesso la violenza che si scatena da dietro uno schermo è un tema che è nelle agende di tutte le istituzioni e le scuole hanno qualche strumento in più per farvi fronte. Grazie anche al sacrificio di Carolina.
«A volte incontro ragazzi che sono "educatori" dei loro genitori. Li invitano a non stare troppo sulle chat a non esporsi sui social». Gli scappa anche un po' di amarezza nei confronti dell'informazione «Dovrebbe distinguersi dai social, mediare, non esasperare le morbosità, in conflitti. Le notizie violente vanno filtrate, c'è il rischio di creare emulazione». Togliere l'acqua dal mare con una mano. «Mi sono reso conto che quello che manca in questi ragazzi è l'emozione. La trovano attraverso sfide estreme, non è una competizione positiva». Le ragazzine vittime sono più dei ragazzi. «A volte non hanno nemmeno loro la consapevolezza che una pacca sul sedere è una molestia. Che la foto di un corpo nudo resta per sempre nel web. Per quanto riguarda i ragazzi, non accettano di essere rifiutati, è una generazione insoddisfatta, immatura da questo punto di vista. E non sono consapevoli delle conseguenze a cui vanno incontro con le loro azioni».
E poi: «E' devastante dare ai giovani modelli di riferimento in cui si è gli uni contro gli altri. Come fondazione vogliamo dare anche indicazioni si genitori come comportarsi: abbiamo avuto situazioni in cui dei bambini di 10, 11 anni erano sui social e sono stati adescati. Come mai a quell'età avevano già un profilo sul web? Vorrei fare gemmazioni della mia fondazione in tante città in modo da diffondere il metodo di lavoro e da stare più vicino ai ragazzi e alle ragazze che chiedono aiuto». Perchè lo schermo è uno scudo fragile che può spalancare le porte alle fragilità di ognuno di noi. Perchè non si aprano più finestre nel buio della notte.
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Il Messaggero