Il sociologo Marco Omizzolo: «Da vent’anni studio il caporalato. Ecco la storia di Balbir»

Nel suo nuovo libro racconta una delle vicende di sfruttamento più gravi che ha conosciuto. «Per 6 anni ha lavorato in un’azienda agricola, 16 ore al giorno per circa 100 euro al mese»

Il sociologo pontino Marco Omizzolo
Marco Omizzolo, originario di Sabaudia, si divide tra la sua città e Roma. Sociologo Eurispes, presidente dell’associazione Tempi Moderni, docente a contratto di Sociopolitologia delle...

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Marco Omizzolo, originario di Sabaudia, si divide tra la sua città e Roma. Sociologo Eurispes, presidente dell’associazione Tempi Moderni, docente a contratto di Sociopolitologia delle migrazioni presso il dipartimento di Scienze Politiche alla Sapienza, combatte mafie, sfruttamento, tratta internazionale, caporalato e schiavitù contemporanee. Ha appena pubblicato, assieme a Balbir Singh il libro “Il mio nome è Balbir” (People).

Da quanti anni si occupa di lotta al caporalato nell’Agro Pontino?

«Da oltre vent’anni. Tutto è iniziato con la mia tesi di dottorato presso l’Università di Firenze. Mi consigliarono di occuparmi del fenomeno dell’immigrazione nel mio territorio. Anche la mia è una famiglia di immigrati. I miei nonni vennero dal Veneto per la bonifica. I genitori di mia madre invece dalla Sicilia andarono in Tunisia e da li poi vennero espulsi. Per approcciarmi al fenomeno dell’immigrazione indiana ho utilizzato la metodologia dell’osservazione partecipata. Ho abitato con le famiglie indiane a Bella Farnia e a Borgo Hermada e nel tempio sikh di Sant’Andrea. Mi sono finto un bracciante agricolo ed ho lavorato dalle 8 alle 14 ore al giorno in un’azienda agricola guadagnando 500 euro al mese che devolvevo ai braccianti indiani. Ho anche seguito un trafficante di esseri umani in India per verificare come avveniva il reclutamento per venire in Italia. Lui mostrava loro foto che lo immortalavano a fianco ad un suv, vicino ad una casa molto bella, mentre si trovava sorridente vicino ad autorità cittadine e forze dell’ordine. Per fare da intermediario percepiva una somma tra i 5.000 e 15.000 euro. Oggi non è più questa la metodologia prevalente».

Ma il quadro è totalmente negativo?

«Assolutamente no. Nell’Agro Pontino ci sono anche moltissime aziende serie e rispettose del lavoro e della dignità dei braccianti.

Perché ha scritto il libro “Io sono Balbir”?

«È una delle storie più significative in cui mi sono imbattuto in questi anni. Una vicenda drammatica con un risvolto fortunatamente positivo. La dimostrazione che dalla riduzione in schiavitù si può uscire grazie al lavoro sinergico con Procura e forze dell’ordine. Balbir per 6 anni ha lavorato in un’azienda agricola di Latina per almeno 16 ore al giorno per una retribuzione che variava tra i 50 ed i 150 euro al mese. Viveva in una roulotte senza acqua, corrente, gas. Gli erano stati sequestrati i documenti e veniva minacciato con una pistola. Veniva picchiato. Addosso ha ancora le ferite. La mattina lavorava in stalla, il pomeriggio nei campi, la sera nell’agriturismo. Si lavava con l’acqua calda che usava per pulire le mucche e si nutriva con il cibo di scarto che dalle cucine finiva ai maiali ed alle galline. Ho conosciuto la sua storia nel 2017. Per contattarlo dall’esterno mi sono inventato una metodologia all’avanguardia oggi riconosciuta anche dalle Nazioni Unite. In un sacco dell’immondizia ho messo viveri e abiti e ho nascosto un cellulare e l’ho buttato vicino all’azienda. Balbir lo ha recuperato e ho cominciato a conversare con lui a notte fonda. Era precipitato nell’alcolismo e aveva già preparato una corda per suicidarsi. Ne ho parlato con il comando provinciale dei carabinieri di Latina che ha operato benissimo ed ha svolto un lavoro eccezionale. Balbir è stato il primo bracciante sfruttato ad ottenere il permesso di soggiorno per meriti di giustizia convertibile in soggiorno per lungo termine. Ora lavora in un’azienda agricola di Latina presso un imprenditore serio, sta bene ed è riuscito a far laureare le sue due figlie in giurisprudenza e medicina in India.

In questo momento di cosa si sta occupando?

«Sto svolgendo attività di inchiesta e ricerca. Sto portando avanti con l’associazione Tempi Moderni un progetto con alcuni ex primari dell’Istituto Oncologico Regina Elena di Roma per svolgere uno screening oncologico dermatologico gratuito rivolto agli extracomunitari. L’utilizzo in agricoltura di prodotti chimici cancerogeni può provocare conseguenze gravi per la salute dei braccianti. Inizieremo da Sabaudia, a febbraio. Parallelamente sarà disponibile uno sportello legale con avvocati giunti da Roma».

La sua è l’unica cattedra in Italia di Sociopolitologia delle migrazioni. Di cosa parla nelle sue lezioni?

«A lezione con me porto i braccianti indiani, bengalesi. Faccio tenere loro dei seminari. Anche Balbir è venuto con me in aula. Molti studenti scelgono di discutere la loro tesi di laurea in questa materia».

Nel 2019 è stato nominato dal Presidente Mattarella cavaliere della Repubblica per meriti di ricerca e impegno contro lo sfruttamento lavorativo. Che emozione ha provato?

«È stata una sensazione meravigliosa. Tra l’altro c’è stata una coincidenza particolare. L’incontro con il Presidente della Repubblica è avvenuto a pochi giorni dalla morte di mio padre. Mattarella è una persona straordinaria. Questo gesto per me è stata come una carezza. Da quel momento tutte le istituzioni hanno dato maggior credito e rivolto maggiore attenzione alle mie indagini ed al mio lavoro. Da anni vive sotto tutela delle forze dell’ordine per le minacce di morte ricevute».

Ha mai paura?

«Non ho mai voluto la scorta. C’è sempre una pattuglia delle forze dell’ordine presente sotto casa a Sabaudia, dove mi hanno distrutto per 4 volte l’auto, e a Roma. Contro di me è stata anche architettata una macchina del fango. Subisco quotidianamente attacchi sui social. Non so dire se sia vera e propria paura. È inquietudine. È cambiata la mia vita, la mia dimensione psicologica».

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Il Messaggero