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di Antonio Crispino
I lussuosi accessori dell’alta moda prodotti da percettori di reddito di cittadinanza assunti in nero. Ma non solo. C’è anche la contraffazione dietro lo scandalo che si consuma ogni giorno nel triangolo industriale di Casandrino, Grumo Nevano e Sant’Antino, un piccolo fazzoletto dell’immensa provincia di Napoli disseminata di microscopici opifici nascosti in seminterrati e sottoscala. È l’altra ricca fetta di mercato di queste aziende dotate di personale talmente specializzato da rendere irriconoscibile il prodotto falso da quello originale. Eppure, di tutta questa maestria non c’è nessun indizio: un cartello, un’insegna, una pubblicità. Niente. Il prodotto tanto più è buono quanto confezionato in silenzio, in clandestinità. Entriamo nell’ennesima fabbrica di abbigliamento, sempre in un seminterrato. Ci fingiamo imprenditori interessati alla produzione di capi contraffatti. Mostriamo un cartamodello di una gonna e una giacca, la spacciamo per un modello di Dolce & Gabbana e pretendiamo che sia fatto uguale, con tanto di etichetta. ‘Non c’è problema’ risponde uno di loro. Ci fa anche il prezzo: 1,30 euro per tagliare e adesivare ogni giacca. Sotto le macchine per cucine sfilano veloci dei jeans di un noto marchio campano, non riusciamo a capire se sia originale o falso. In negozio vengono prezzati circa 90 euro l’uno.
Ci sono dodici operai a lavorare, tutti in nero, quattro percepiscono il reddito di cittadinanza.
La contrattazione è tutta verbale, il datore di lavoro è anche amministratore, operaio, legale, assistente sociale, amico. Gennaro ha una compagna che percepisce 700 euro al mese di reddito di cittadinanza, dicono sia bravo a ritagliare il prezioso pellame senza sprecarne nemmeno un centimetro. Ci mostra alcuni modelli, in particolare una borsa Fendi chiamata “Pomodorino” venduta in negozio a 1200 euro. Non ha una sbavatura. Ci dice che anche se i carabinieri dovessero chiudere quella fabbrica lui sa già dove andare il giorno dopo. Così è. I carabinieri di Grumo Nevano dopo l’ispezione sequestrano i capannoni anche perché privi di qualunque misura di sicurezza e tracciamento dei rifiuti. Il giorno dopo lo ritroviamo a Casandrino, il comune accanto, davanti all’ennesima fabbrica di confezioni, stavolta gestita da bengalesi che qui sono arrivati come apprendisti e ora sono diventati imprenditori dopo aver imparato bene il sistema.
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