«Non ho ucciso Pamela, volevo dirlo davanti ai suoi familiari». Innocent Oseghale, 30enne pusher nigeriano accusato di aver ucciso e fatto a pezzi il corpo di Pamela...
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«Pagherò per quello che ho fatto - ha detto Oseghale -, ma non per quello che non ho commesso». La giovane, secondo la sua versione dei fatti, si iniettò eroina nella mansarda di via Spalato mentre era con lui; poi si sentì male, cadde dal letto e, quando sembrava essersi ripresa, lui sarebbe uscito per cedere marijuana trovandola poi senza vita al ritorno a casa.
Mentre l'imputato parlava, la madre di Pamela, Alessandra Verni, è uscita dall'aula mentre il padre Stefano Mastropietro lo ha ascoltato fino alla fine. Il 30enne ha sostenuto che fu Desmond Lucky a procurare l'eroina alla giovane e che lui smembrò il corpo da solo. Gli avvocati Matraxia e Gramenzi hanno chiesto una perizia, nuovi esami istologici sulle ferite riscontrate sulla 18enne all'altezza del fegato, per chiarire se furono inferte quando era ancora viva. Alla richiesta si è associato il procuratore della Repubblica di Macerata Giovanni Giorgio. I giudici decideranno il 24 aprile se disporla.
Nel caso di decisione negativa il processo si discuterà alle udienze dell'8, 15 e 29 maggio. Oseghale, felpa rossa e blu, blue jeans e scarpe da tennis nere, è apparso tranquillo in aula al fianco dei suoi legali. In udienza duello tra i consulenti delle parti con tanto di confronto diretto su tavoli contrapposti davanti alla Corte: gli esperti della difesa hanno sostenuto l'assenza di elementi certi per escludere che Pamela morì d'overdose e per stabilire che venne accoltellata quando il suo cuore batteva ancora. Opinioni opposte hanno espresso i tecnici di accusa e parte civile.
Acceso confronto in aula anche tra la criminologa Roberta Bruzzone, consulente della famiglia della vittima, e la psicologa Antonella Zecchini, incaricata dalla difesa: secondo Bruzzone, Pamela non era capace di autodeterminarsi a causa di un grave disturbo borderline che la poneva in balia di chiunque incontrasse e che era difficilmente contenibile con farmaci. Di diverso avviso la consulente della difesa, secondo cui invece il disturbo della ragazza non la rendeva incapace e chi la incontrava non poteva rendersi conto delle sue precarie condizioni psicofisiche. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero